Abbiamo bisogno di un’emotività intelligente

di Elena Granata

“In questa guerra che ci sembra più grave delle altre solo perché è vicina, noi che proviamo a raccontarla dobbiamo essere doppiamente bravi a liberarla dal magazzino degli orrori e dalle incrostazioni dell’emotività”

Scriveva così qualche giorno fa sui social Francesca Mannocchi, giornalista italiana tra le prime a raccontare dal campo la guerra ucraina. Mi ha subito colpito la sua pacatezza, quella sua ferma distanza dai fatti, un approccio riflessivo e mai completamente annientato dai fatti, pur cruenti. Perché è invece proprio una emotività fuori controllo anche nel contesto italiano a sorprendermi in questo conflitto: un misto di rabbia, di malessere, di urgenza di schierarsi e di arrivare alle conclusioni, un’esigenza di definitività che non lascia spazio alle domande e alla ricerca dei perché o dei come fare. Serpeggia soprattutto nella generazione degli adulti, come fosse una liberazione da tutti quei freni inibitori che fino a qualche tempo fa ci avrebbero resi più prudenti nei giudizi, nella certezza delle posizioni, meno aspri nei toni e nei modi. E dopo la pandemia che ci ha tutti compressi. La guerra libera in tutti noi, tra paura e sgomento, pulsioni violente.Assistiamo a una retrocessione nei rapporti tra i generi, che si esplicita, anche tra di noi lontani dalla guerra, in una nuova aggressività del maschile, di uomini pronti a spiegare (anche a noi donne) che non abbiamo capito, che non abbiamo inteso, che non ci rendiamo conto. Sono pochissime le donne che prendono la parola nei talk, e le migliori lo fanno proprio dal fronte, perché di guerre - come dalla notte dei tempi - si occupano gli uomini.Molti colleghi, tra i più autorevoli di questo Paese, sono impegnati oggi a spiegare a noi, ma prima ancora a se stessi, quanto sia etico e ragionevole l’invio di armi ad un popolo oppresso, in punta di catechismo e di encicliche, citando papi e imperatori, altri si affrettano a liquidare senza rimpianti persino la cultura russa che pure è parte fondamentale della nostra cultura europea; sembrano avere dimenticato in pochissime settimane parole come diplomazia, mediazione, accordi. Ma anche su questi punti fatichiamo a costruire un discorso pubblico e un confronto pacato. I giovani no, loro stanno lontani, si proteggono, già provati nel corpo e nello spirito.L’energia della guerra anima i vecchi, silenzia i giovani.Quanta emotività. Ma non è di intelligenza emotiva che abbiamo bisogno in queste ore, non serve a noi che guardiamo il conflitto ad una certa distanza, né a chi lo vive sulla propria pelle; non ci manca l’empatia, il coinvolgimento, la partecipazione intensa al destino di un popolo che sentiamo più vicino di altri (per quegli strani giochi dei confini geografici, del colore della pelle, delle storie contingenti), ci manca piuttosto un’emotività intelligente, di chi non si lascia travolgere dalle passioni, pur intense, ma prova a riaffermare il valore della ragione e del senso critico.Un pensiero che rende necessaria una lettura sincronica degli eventi, e non solo storica. Non possiamo non leggere dentro una matrice comune le tre crisi che stiamo attraversando:1. la crisi climatica che ha portato i paesi occidentali ad accelerare almeno sulla carta e nelle dichiarazioni di intenti (Cop26 e G20, del 2021) una transizione ecologica che è apparsa tanto necessaria da chi l’ha vista da Roma o Bruxelles ma distante e pericolosa se osservata da Pechino o da Mumbai;2. la crisi pandemica che ha messo in crisi economie e sistemi di welfare nelle diverse parti del mondo ma è stata gestita tagliando fuori dall’accesso ai vaccini almeno metà del mondo, e la metà più povera;3. la crisi geopolitica che sta rivelando anche ai meno attenti quanto la dipendenza energetica, la mancata sovranità alimentare degli Stati, il mercato delle armi e della guerra, combattuta sempre lontano dai nostri occhi, abbiano costruito legami perversi tra democrazie e nazionalismi, tra governi democratici e paesi illiberali. Un conflitto culturale ed etico che non abbiamo in alcun modo messo a tema e che mina le ragioni stesse per cui l’Europa dei popoli è nata, con un impegno alla pace e alla prosperità; una nuova ritrovata unità occidentale non potrà reggersi solo sul comune impegno al riarmo e sul balbettio incerto dei grandi leaders europei.Quanto ci manca David Sassoli e quel suo parlare fermo e profetico insieme, di chi incarnava istituzioni nate da una guerra mondiale - l'Europa non è un incidente della storia - ma sapeva ascoltare anche il grido dei popoli di questo tempo. Oggi dobbiamo conservare la lucidità che ci consente di capire che il combinato disposto di queste tre crisi epocali sta generando un assetto politico inedito, per il quale ci mancano parole, i termini di paragone, dobbiamo esercitare quella intelligenza connettiva capace di leggere i nessi profondi e le profonde contraddizioni, per indicarci vie di azione,Cercare di capire cosa sta accadendo e quali siano le vere poste in gioco non significa negare il nome dell’oppressore, né sminuirne i crimini e le colpe, né dichiararsi neutrali tra le ragioni della Nato e quelle della Russia (quel né-né, tornato prepotentemente tra le bandiere e gli slogan), né negare il senso profondo delle ragioni europee, del suo spirito democratico e libertario.Si tratta di imporsi un esercizio di discernimento e di comprensione. Le nostre opinioni non possono nascere solo scorrendo i social, ascoltando i talk televisivi, lasciandoci inondare senza filtri dalle immagini della prima vera guerra ai tempi dei social, ai tempi di Netflix, che detta format, linguaggi, figuranti. Dobbiamo proteggerci (come fanno per altre ragioni i ragazzi), guadagnarci una certa distanza, trovare occasioni serene di dialogo, non accontentarci di nutrire buoni sentimenti o di forme di pacifismo senza elaborazione di pensiero.Ci vuole una conversione alla pace, ad una pace-giusta, ad un’economia-giusta, a una giustizia-pacificata, capace di ascolto delle ragioni degli altri. “Possiamo e dobbiamo essere convinti del nostro modello culturale. Ma non possiamo immaginare che tutto il mondo sia pronto ad assumerlo. È questo il realismo da cui dobbiamo partire”, scriveva Mauro Magatti qualche giorno fa su Avvenire. Non possiamo giocarci una guerra dell’Occidente contro il resto del mondo: la pace nasce solo riconoscendo l’esistenza di altri mondi, di altri modi, di altri percorsi culturali, di altre paure e altri fantasmi, che noi non vediamo, ma gli altri sì.C’erano già tutti i segni che qualcosa stava drammaticamente mutando. Ma non eravamo capaci di leggerli. A distanza di pochi mesi, rivedo le immagini del Summit G20 a Roma, dove ero presente con i colleghi dello staff sherpa della Presidenza del Consiglio. Rivedo l’arrivo di Biden con le sue 17 auto blindate, quelle a prova di radar e di bombe; riascolto le parole distanti di Putin presente solo in collegamento video e ricordo la doppia assenza del presidente Xi Jinping, presente con un video preregistrato ore prima, in foggia ieratica e messianica, le distanze culturali del Presidente Modi e della sua India, per citarne solo alcuni. C’erano già tutti i segni per capire che la “forma” di quegli accordi e di quel mondo a 20 potenze, non era la “sostanza” del mondo scosso dalle crisi. C’erano i segni per capire che avremo bisogno, per costruire una pace giusta e duratura, di una nuova cultura della mediazione culturale, di una nuova grammatica dell’unità, di un nuovo discorso intorno alla pace. C’era un’enciclica che sembrava venire dal nostro passato ma parlava del nostro presente: Fratelli tutti, Francesco, 3 ottobre 2020.

Condividi il post