Consumo di suolo: una questione civile che riguarda tutti

Consumo di suolo: una questione civile che riguarda tutti

Esiste uno scarto profondo fra le parole e le cose, tra le asserzioni di principio e le prassi, nel nostro Paese. A parole tutti apprezzano le bellezze del paesaggio, la cultura e il cibo; tutti difendono la terra e l’agricoltura. Ma non sempre alla consapevolezza della ricchezza del nostro patrimonio artistico e naturale, corrisponde un altrettanto matura cultura civile, capace di esprimere con gesti concreti l’accudimento, la presa in carico e la difesa della cultura e dell’ambiente. Gli italiani, mentre lodano le ricchezze che rendono noto il nostro Paese nel mondo, dimostrano nei fatti scarsa attenzione a come il territorio italiano venga maltrattato e svenduto agli interessi di corruttori, speculatori e mafiosi. La distanza tra percezione collettiva e diffusa di un valore (la Bella Italia) e comportamenti pubblici e collettivi (l’Italietta) appare evidente.

In questo senso, riflettere sul consumo di suolo e sulla dissipazione, l’urbanizzazione, la perdita delle funzioni ecologiche e produttive dei suoli agricoli, è questione civile che riguarda tutti, non solamente i politici e gli addetti ai lavori. Una riflessione che chiede di misurarci in modo radicale con questa domanda: perché a fronte di un grande patrimonio agricolo, ambientale e paesaggistico, siamo così poveri culturalmente di strumenti (regole, prassi, politiche) per prendercene cura?

Una crisi che viene da lontano

Le ragioni di questa scarsa consapevolezza ha radici lontane, che affondano nel nostro modello di sviluppo. Lungo tutta la sua storia repubblicana, l’Italia ha conosciuto un (solo) modello economico incentrato sull’edilizia, settore che è stato dominante su tutti gli altri, e sulla rendita. Questo modello ha permeato in maniera intensa e condizionante gli stili di vita delle persone e delle famiglie, le trasformazioni dei territori e dei paesaggi, ha influenzato i percorsi degli ordini professionali. Ha formato il nostro modo di pensare collettivo, suscitato convincimenti e credenze molto radicate.

Per qualche decennio, ha consentito alle famiglie italiane di guadagnare un certo benessere, garantendo lavoro e accesso alla proprietà della prima e spesso della seconda casa.  La velocità del cambiamento, il desiderio di lasciarsi alle spalle l’arretratezza economica, la povertà e la fame, hanno generato un’adesione poco problematica a questo modello e impedito di riflettere sulla necessità di uno sviluppo integrale della società. La rincorsa verso un maggior benessere conquistato soprattutto attraverso i beni di consumo e il mattone, non ha lasciato margine alla cultura attenta al paesaggio e alle risorse naturali, spesso liquidata come un lusso elitario.

Questa visione del mondo si è tradotta in regolamenti, leggi e prassi.

Per trent’anni le leggi per la ricostruzione e i regolamenti di edificazione, così come provvedimenti di origine e matrice bellica e post-bellica, sono stati gli unici strumenti con cui decidere i destini del paesaggio. La logica dei condoni degli anni Ottanta, la stagione di tangentopoli e di nuovo i condoni edilizi, le maglie larghe dell’urbanistica contrattata degli anni Novanta hanno creato le condizioni per vantaggi senza contropartite per gli attori privati, fino alla deriva finanziaria dei fondi immobiliari e dei derivati dell’ultima stagione. Il convincimento – tradotto in politiche e prassi – che l’edilizia sia in ogni tempo e in ogni dove il garante e il volano dello sviluppo economico è tornato ricorsivamente nel dibattito pubblico, sia in fase congiunturale positiva, che nei momenti di crisi e di stallo economico.

Questa spinta alla crescita e al raggiungimento di condizioni di benessere ha condizionato anche gli stili di vita e le consuetudini abitative, configurando quel tratto tipico della cultura dell’abitare italiana, che è divenuto in qualche forma anche il carattere di molte nostre città: la prevalenza degli interni sugli esterni. Un’accezione di “abitare” che sembra coincidere soprattutto con comfort e benessere personale, con un’attenzione rivolta principalmente alla cura degli interni degli alloggi. É la storia di un legame debole tra la comunità e il suo territorio, legame debole che è divenuto terreno di coltura di comportamenti opportunistici e disinteressati alla cosa pubblica. La prevalenza degli interni sugli esterni ha avuto effetti sulla qualità dello spazio pubblico in quanto una città di soli interni rischia di trasformarsi in una fabbrica di periferie e di spazi di bassa qualità. A questo rinchiudersi negli interni ha corrisposto un progressivo indebolimento della polis, intesa come luogo della partecipazione, del confronto, della domanda di società e ambiente, della felicità pubblica.

Soprattutto, e questo è il punto che preme sottolineare, la forte centratura economica e culturale intorno ad un’unica idea di sviluppo (prioritariamente) edilizia ha impedito di immaginare altre leve di crescita e di coltivare altre risorse di sviluppo, ha mortificato altri settori dell’economia che hanno sempre avuto un ruolo subalterno e compresso, come il settore agricolo.

Suolo: paradossi e meccanismi perversi

L’abbandono di suoli agricoli è stato l’esito della crisi di sistema economico e culturale che aveva nella terra e nella sua cura il proprio centro propulsore. È espressione della debilitazione di un sistema non più in grado di reggere agli assalti della globalizzazione, della competizione dei mercati, della fatica del lavoro. D’altro canto, quegli spazi sono l’esito della frammentazione territoriale (fisica) e del paesaggio generata da processi edilizi sempre più spinti, sempre più voraci di nuovi territori da urbanizzare. É venuta meno la cura, il valore di quei terreni. É venuto meno quel sistema culturale che attribuiva agli spazi un valore intrinseco e un legame profondo con un sistema economico e sociale.

L’intensificazione di un’edilizia speculativa si è facilmente intrecciata con interessi illeciti, familismi e clientele di varia natura, alimentando sempre più quel deficit di cultura civile che caratterizza il nostro Paese. Questo processo è avvenuto non solo nell’indifferenza, ma addirittura nel convincimento che fosse in qualche modo positivo o comunque l’unica via percorribile per lo sviluppo. Il suolo è stato ridotto a piattaforma da valorizzare, da trasformare più in fretta possibile, con grave perdita di terreni fertili, di biodiversità, di permeabilità dei suoli.

Con una puntualizzazione necessaria. Se in passato, pensiamo alla stagione del boom economico degli anni sessanta, la dinamica demografica era positivamente correlata con l’urbanizzazione e con la crescita dei sistemi urbani, negli ultimi anni assistiamo a una dissociazione tra crescita economica e demografica e consumo di suolo. I dati sul consumo di suolo agricolo rivelano che negli anni della crisi economica e in assenza di crescita demografica, si è registrato un incremento della produzione edilizia e del consumo di suolo rilevante. Attorno al consumo di suolo agricolo e a una produzione di edifici, capannoni, infrastrutture prive di relazioni con la reale domanda economica e sociale ruota il paradosso del nostro sistema economico e fiscale e la nostra disattenzione collettiva.

Secondo i dati Ispra (2015) “tra il 2008 e il 2013 il fenomeno ha riguardato mediamente 55 ettari al giorno, con una velocità compresa tra i 6 e i 7 metri quadrati di territorio che, nell’ultimo periodo, sono stati irreversibilmente persi ogni secondo. Un consumo di suolo che continua a coprire, quindi, ininterrottamente, notte e giorno, aree naturali e agricole con asfalto e cemento, edifici e capannoni, servizi e strade, a causa di nuove infrastrutture, di insediamenti commerciali, produttivi e di servizio e dell’espansione di aree urbane, spesso a bassa densità. I dati mostrano come a livello nazionale il suolo consumato sia passato dal 2,7% degli anni ’50 al 7,0% stimato per il 2014, con un incremento di 4,3 punti percentuali. In termini assoluti, si stima che il consumo di suolo abbia intaccato ormai circa 21.000 chilometri quadrati del nostro territorio” (Ispra, 2015, p. 7).

Questa modalità impropria di utilizzo del suolo, in assenza di reale domanda economica, ha ragioni finanziarie e fiscali. Negli ultimi vent’anni è cresciuta la dipendenza fiscale delle amministrazioni dalla svendita del proprio suolo agricolo, entro un processo ambivalente: da un lato, sono cresciute le autonomie e le responsabilità delle amministrazioni locali, dall’altra, sono diminuite le loro capacità di spesa e le risorse economiche di cui disporre per le necessità crescenti del territorio e della società. Da un lato, sono aumentati i gradi di libertà e le responsabilità locali, dall’altro, sono venuti quasi subito a mancare gli alimenti a disposizione delle amministrazioni locali per svolgere le nuove funzioni loro assegnate. L’autonomia finanziaria si è rivelata ben presto la nota dolente della riforma. Per tamponare le difficoltà di attingere ad altri finanziamenti, si è innescato un utilizzo improprio degli oneri di urbanizzazione, e il legame tra oneri di urbanizzazione e finanza locale ha conosciuto un punto di svolta radicale.

Le amministrazioni locali, soprattutto i piccoli comuni, proprio in ragione del peculiare regime fiscale italiano – a partire dall’abolizione dell’ICI e con la tormentata vicenda della tassazione sulla casa e soprattutto con la possibilità di utilizzare gli oneri di urbanizzazione derivanti dalla nuova edilizia per la spesa corrente, cosa che fa dipendere il ciclo della spesa pubblica dalle fluttuazioni del ciclo immobiliare (Pileri, Granata, 2012; Finiguerra, 2014) –  sono state incoraggiate a subordinare la sostenibilità delle scelte a esigenze di cassa.

L’opportunità di utilizzare le entrate che si generano, per effetto soprattutto della trasformazione dei suoli liberi, per sostenere le spese della propria attività corrente, da quel momento ha reso il suolo una merce di scambio. Non è difficile immaginare che da allora si sono intensificate le concessioni edilizie facili, per finanziare la vita stessa dell’amministrazione locale. Altresì non è difficile immaginare come in nome del reperimento di risorse, le amministrazioni siano indotte a trascurare quegli aspetti che non producono immediata moneta per le casse comunali ovvero, ambiente, spazi aperti, paesaggio.

Se a questo dato, già di per sé preoccupante, aggiungiamo i volumi di edilizia generati in modo illegale e al di fuori di ogni pianificazione il quadro è destinato ad aggravarsi. Secondo i dati del Cresme, nonostante la crisi economica, le nuove case abusive costruite nel 2013 sono state circa 26.000, esattamente come l’anno precedente (Cresme, 2013). Questo significa che – in netta controtendenza rispetto alla crisi dell’intero settore immobiliare, almeno di quello che si muove in regola – il settore edilizio quando è in mano ad operatori fuori dalla legge, non conosce crisi.

Secondo il rapporto annuale di Legambiente, l’edilizia abusiva è servita in alcuni contesti per alimentare lo scambio politico e la corruzione locale. «La convenienza economica è presto detta: a fronte della spesa media di 155.000 euro necessari per tirare su un’abitazione a norma, ne bastano 66.000 per una abusiva. E non ci sono dubbi che si tratti essenzialmente di un abusivismo di tipo speculativo, tutt’altro che di necessità, che deturpa soprattutto le aree di maggior pregio ambientale come le coste o le aree protette. Ma se a mettere in moto le betoniere e gettare cemento illegale c’è sempre tempo e modo, per eseguire le demolizioni e ripristinare il primato della legge mancano sia l’uno che l’altro» (Rapporto Ecomafia, 2014). E gli effetti devastanti sul territorio, sulla sicurezza dei cittadini, tornano ogni anno a farsi sentire attraverso alluvioni, esondazioni che minacciano da vicino anche contesti urbani che ritenevamo immuni da ogni contatto con la natura.

Dare nuovo valore al suolo e agli spazi aperti

Un’inversione di tendenza e un riconoscimento collettivo del valore del suolo ha bisogno di un movimento culturale consapevole e di un sistema di regole più chiare e vincolanti. Se nel tempo e nella cultura civile diffusa, alcuni beni comuni – come l’acqua – sono tornati centrali nell’attenzione dei cittadini, suolo, spazi aperti e disegno del paesaggio appaiono ancora valori coltivati da una nicchia di esperti e di cultori (Settis, 2010). Non è ancora diffusa la consapevolezza del valore del suolo come elemento primario della nostra civiltà, che sostiene la nostra esistenza, che garantisce aria, acqua, cibo e biodiversità (Boatti, 2014; Martinelli, 2013). Come risorsa capace di trasformare un rifiuto, ovvero qualcosa di morto, in nuova vita, attraverso quei cicli biogeochimici da cui dipende la nostra vita e quella di molti altri esseri viventi, da cui dipende il paesaggio che vediamo e l’ambiente con le sue qualità e le sue funzioni.

Qualcosa però sta cambiando. Comincia a radicarsi l’idea che la carenza di cultura civile di cui è affetto il nostro Paese abbia un doppio volto: uno che racconta del venire meno dei legami di reciprocità e dell’attitudine alla collaborazione tra le persone, l’altro che rivela una progressiva disaffezione ed estraniamento dai luoghi. Relazioni interpersonali e interazioni con il proprio ambiente di vita vivono di riflessi e di ricadute reciproche: il peggioramento dei rapporti di fiducia e di scambio, il venire meno della felicità pubblica, il ritirarsi entro un orizzonte privato e borghese, s’intreccia con il venire meno della attenzione all’ambiente e al paesaggio, con l’incapacità di riconoscere il valore e il senso di quei beni.

Sono tanti i campi nei quali si stanno sperimentando azioni di promozione e difesa del territorio. Pensiamo, per esempio, alle tantissime aziende agricole che ruotano intorno all’agricoltura biologica; pensiamo alle battaglie culturali volte alla riduzione degli sprechi alimentari e a una cultura del cibo più sana; pensiamo all’impegno concreto di amministrazioni locali anche piccole per sperimentare modi di agire e prassi più virtuose.

La più grande difficoltà di queste esperienze è quella di fare massa critica, di superare la soglia della testimonianza per diventare cultura diffusa, di riuscire ad avere impatti sui territori decisivi per la loro crescita, di diventare sintesi politica che orienti l’azione locale. Senza la possibilità concreta di spezzare alcuni meccanismi perversi (come l’uso improprio degli oneri di urbanizzazione, i vincoli del patto di stabilità, una frammentazione amministrativa che impedisce ogni cooperazione locale), sarà difficile immaginare cambi di rotta.

In questo compito sarà sempre più necessario allargare lo spettro degli attori coinvolti: c’è bisogno di un maggiore impegno della componente politica ma anche delle istituzioni educative e di formazione, è necessario un maggior coinvolgimento del mondo dell’impresa e degli attori economici. Soltanto un impegno condiviso di tutte le parti consentirà di trasformare azioni pilota e isolate in uno stile di azione che diventa costume e cultura condivisa.

Bibliografia essenziale

Boatti G., Un paese ben coltivato. Viaggio nell’Italia che torna alla terra e, forse a se stessa, Laterza, Roma-Bari, 2014.
Cresme, Rapporto 2013.
Finiguerra D., 8 mq al secondo. Salvare l’Italia dall’asfalto e dal cemento, Emi, 2014.
Granata E., Terra 2.0. Guida per cittadini ecosostenibili, Città Nuova, 2015.
Granata E., Chi semina e chi raccoglie. Per una nuova cultura del paesaggio, Fondazione Tertio Millennio, Roma, 2014.
Granata E., “Ricomporre i frammenti: paesaggio, relazioni, cultura civile”, in Gabrielli G., (a cura di), Territori, città, imprese: smart o accoglienti?, Franco Angeli, Milano, 2014.
Ispra, Il consumo di suolo in Italia, 2015.
Legambiente, Rapporto Ecomafia, 2014.
Martinelli L., Salviamo il paesaggio!, Altreconomia, Milano, 2013
Pileri P., Granata E., Amor loci. Suolo, ambiente, cultura civile, Raffaello Cortina, Milano, 2012.
Pileri P., Cosa c’è sotto. Il suolo, i suoi segreti, le ragioni per difenderlo, Altreconomia, 2015.
Settis S., Paesaggio. Costituzione. Cemento. La battaglia per l’ambiente contro il degrado civile, Einaudi, Torino, 2010.

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