Quando il terremoto distrugge tutto, anche il senso critico
Quando il terremoto distrugge tutto, anche il senso critico
Slogan facile e condivisibile da tutti. Peccato che imponga tempi di ricostruzione a quindici – venti anni e, per citare Renzo Piano, due generazioni per mettere in sicurezza il Paese. E’ questa la risposta che possiamo dare ai nostri figli? E poi, i vent’anni della ricostruzione di Gemona (nel ’76) sono equiparabili a vent’anni di oggi? Con aspettative umane e temporalità radicalmente cambiate rispetto al passato siamo disposti ad attendere così tanto? E queste tempistiche varranno anche come codice per i terremoti a venire?
I piccoli borghi, così come le città, non sono opere d’arte.
Sono luoghi di vita e di cambiamento, mescolanza di economie e paesaggi, incrocio di generazioni. Quando un terremoto li distrugge non è agli storici dell’arte o ai cultori dei beni culturali che possiamo chiedere le risposte (o almeno non tutte). Neppure ai soli ingegneri e architetti. Servono competenze varie che sappiano confrontarsi anche duramente sulle soluzioni possibili.
Così non accade, mai. Dopo ogni evento catastrofico, il Paese – nei suoi politici e nei suoi mezzi di informazione – tende rapidamente a convergere intorno ad una posizione semplice e rassicurante. Non c’è tempo per il pensiero e per il dubbio. Più un fatto è complesso e difficile da risolvere e più sono immediate e semplici le ricette proposte. Più un fatto è complesso e più tendono a tacere quelli che sarebbero deputati a parlarne: ingegneri, sismologi, geologi e scienziati. Tacciono, salvo eccezioni, perché è difficile spiegare e chiarire questioni spesso tecniche facendosi capire dai non addetti ai lavori; tacciono perché il grande pubblico è più disponibile ad ascoltare la storia personale delle vittime o la voce di un noto critico d’arte piuttosto che le argomentazioni dello scienziato. Alla certezza dell’uomo di lettere faremo sempre fatica a contrapporre il dubbio metodico dell’uomo di scienza.
Così facilmente, nel silenzio di chi dovrebbe parlare ma non ha gli strumenti e nel clima di emotività che inevitabilmente si genera, prevale lo slogan più facile e consolatorio. D’altro canto, come in tutti gli eventi drammatici (attentati, incidenti) è l’emotività ad animare il dibattito, fino a che il tema si consuma e scompare dall’interesse collettivo, dopo pochi giorni. Solo così riusciamo a spiegare il successo mediatico dello slogan: dov’era e com’era.
Che significa? Che cosa ricostruiremo? Le opere pubbliche, scuole, ospedali, presidi di sicurezza (stazioni di polizia, di salute pubblica), che certamente attengono agli obblighi e alle responsabilità dello Stato. Le case private? Tutte? Anche quelle costruite senza rispetto delle regole di buona costruzione? Le seconde case?
È comprensibile che questa sia l’aspettativa delle popolazioni colpite dal disastro, la distruzione di affetti, cose, relazioni, porta inevitabilmente a sperare che tutto torni come era nel più breve tempo possibile. È in parte comprensibile che questo sia il messaggio politico delle prime ore di un governo che voglia farsi sentire solidale e presente. Questa prospettiva appare invece meno comprensibile quando sposata, senza se e senza ma, dalla gran parte degli uomini di cultura, dai tecnici e dagli opinion leader. Storici dell’arte – esemplare l’intervento su Repubblica di Tomaso Montanari – esperti di beni culturali, architetti applicano ai sistemi urbani, città e villaggi, gli stessi criteri del recupero e della conservazione dei manufatti artistici (dipinti, sculture, monumenti). Il campanile è caduto, lo si ricostruisce riposizionando le pietre cadute, una chiesa è lesionata, la si mette in sicurezza con gli strumenti dell’ingegneria, un affresco è in parte stato distrutto se ne rintracciano tracce e e frammenti per restituirne l’intero. Così si impara a fare nelle università, così si fa negli studi di restauro, così vuole quell’esile mercato della conservazione dei beni culturali che ancora sopravvive in Italia, tra mille vincoli e fatiche. Ma, le città, e questo dovrebbero dirlo soprattutto gli urbanisti se avessero voce e un po’ di onestà intellettuale, sono ecosistemi che interagiscono con la natura e i suoi pericoli, e con il tempo. Le città sono sempre state il luogo della rigenerazione e del cambiamento, non solo della ricostruzione. Un cambiamento che si è nutrito di demolizioni, di tradimenti, di riusi impropri. Quante chiese sono state costruite su templi pagani, fraintendendone le forme e le materie; quante piazze sono nate da sedimi precedenti, da un foro romano, da una rovina.
Se i nostri padri ci hanno consegnato borghi belli e talvolta di alta qualità paesaggistica, non è detto che oggi dobbiamo continuare a conservarli e preservarli come dei musei. Musei, magari, non adatti alla vita delle comunità e alla loro incolumità. Le città e i loro abitanti sono vivi e ci piace ricordare la cultura di un popolo è viva quando rinuncia a ripetere se stessa e le grandezze del passato, ma prova a modificare consuetudini e linguaggi.
Come ricostruire?
Case e edifici sono caduti perché sono stati costruiti male. Non in tutti i casi erano di tale pregio architettonico da valer la pena di ricostruirli à l’identique. Ci viene però il dubbio che si voglia ricostruire soprattutto l’involucro esterno dei paesi distrutti, ritrovando quel pittoresco che li animava. E infatti una soluzione possibile e da molti auspicata è quella di mantenere gli antichi tracciati, restaurare monumenti e chiese, consolidare le case rimaste in piedi e ricostruire in stile quelle cadute: appendere le vecchie facciate ricostruite su strutture di cemento più solide, è la strada già sperimentata nel centro storico dell’Aquila, in Friuli e in alcune cittadine dell’Umbria.
In fondo ci rassicura ritrovare l’immagine esterna di quei paesi, ricostruirne l’habitat estetico come dovessimo ricreare il set di un film. Strano che questa prospettiva oggi non ci metta a disagio, strano che non susciti dubbi nelle cerchie più colte e preparate. Inorridiamo vedendo certe riduzioni in scala di Venezia a Las Vegas, ci fanno sorridere i finti paesini in stile olandese che vediamo sorgere in parti sperdute della Cina. Persino Venezia, quella vera, ci pare paradossalmente il set disneyiano di un film d’animazione, piena di turisti e ormai privata della sua vita e dei suoi abitanti, come ben raccontato da Salvatore Settis nel libro “Se Venezia muore”. Perché c’è un problema di autenticità, di verità si potrebbe dire. Non sempre quando un ambiente viene distrutto all’improvviso sappiamo riprodurlo o possiamo ripristinarlo, senza rischiare di generare un simulacro di quello che è stato. Conservare – così ci hanno insegnato le teorie e le prassi più ortodosse – è sempre anche un atto di selezione e di scelta. Altrimenti la conservazione del passato diventa parodia di se stessa.
Integrare antico e nuovo, paesaggi e comunità
Ci vuole il coraggio di immaginare condizioni possibili di esistenza nei luoghi dell’abbandono dell’appennino, a prescindere dall’evento contingente, per le generazioni che verranno. Ci vuole il coraggio di immaginare che è la capacità creativa che nasce da questi traumi che può spingerci a cambiare. Ci limitiamo a qualche esempio: cosa ci impedisce di immaginare che le scuole dei nostri figli e nipoti siano solo prefabbricate e a un piano, costruite in legno o in acciaio e vetro, nel rispetto della sicurezza e dell’ambiente? Cosa ci impedisce di immaginare che almeno le case, in quei luoghi a rischio, usino nuovi linguaggi, osino la leggerezza dell’acciaio – resistente e elastico – sostituendo mattoni e cemento?
Cosa impedisce di integrare sapientemente antico e nuovo, restauro e innovazione? Acciaio, vetro, legno sono oggi alcuni dei materiali che consentono agli architetti di tutto il mondo di sperimentare un lessico nuovo adatto a collocarsi anche in ambienti naturali di pregio. Dimentichiamoci chalet di montagna, pagode orientali, bungalow da vacanze, rifugi di fortuna. Oggi questi materiali consentono di ottenere risultati altissimi sotto il profilo estetico con prestazioni altrettanto alte sotto il profilo tecnologico. Non a caso, le scuole di Architettura e ingegneria sfornano ogni anno migliaia di studi e ricerche e tesi su nuovi materiali, brevettano case innovative, adatte al vivere contemporaneo, miti e rispettose della natura. Ma nulla di tutto questo lambisce minimamente il mercato vecchio e corrotto dell’edilizia del cemento, complice un’arretratezza del sistema nel suo insieme, della penetrazione nel mercato edile di associazioni criminali e mafiose da tempo accertato dalle procure di mezza Italia, delle mille complicità di professionisti locali. Se non spezziamo questo circolo vizioso, davvero costruiremo oggi le tombe dei nostri figli domani.
Ci sono Paesi evolutissimi che costruiscono in modo assolutamente diverso, con strutture lignee, elastiche, perfettamente adattabili anche ai nostri contesti appenninici. E non importa se fino ad ora abbiamo usato altri modi di costruire, le cose cambiano, possono anche cambiare in fretta. Le persone cominceranno ad apprezzare spazialità e linguaggi differenti: una casa di legno ben costruita o realizzata con pannelli prefabbricati non è meno bella di una casa di pietra. Cambierà il paesaggio, cambieranno le piazze, le relazioni tra pieni e vuoti. Ma forse anche la nostra generazione sarà stata in grado di proporre nuovi modi di abitare. Perché non si può fare riferimento assoluto ad un genius loci, quando sia il genius sia il locus sono stati nel tempo alterati, come avvenuto in tanti borghi minori.
Dove ricostruire?
C’è soprattutto una variabile di cui si fa fatica a tenere conto: il fattore tempo. Se anche decidessimo oggi di ricostruire esattamente i borghi come erano, ci vorrebbero almeno una decina di anni. Mentre la domanda di coesione sociale, di relazioni umane, di mantenimento di relazioni calde e prossime, di luoghi sicuri dove vivere è una domanda posta oggi, da queste specifiche comunità e da queste persone. E’ una domanda di case, di luoghi pubblici di riferimento sicuri, ma è anche una domanda che trascende le singole case, una domanda collettiva.
L’ipotesi di spostare intere comunità altrove entro città fittizie e colonie improvvisate, come nelle new town di L’Aquila, si è rivelata fallimentare. L’alternativa non deve essere però necessariamente il mantenimento di tutte le attuali localizzazioni. Questi borghi, immutati per secoli, negli ultimi decenni hanno già subito forti alterazioni, precedenti al terremoto. Le prime case sono diventate spesso seconde case, case da affittare a turisti di passaggio: sono case senza mercato, il cui valore era dato dall’uso degli eredi e dei pochi abitanti. E’ affettivo più che economico. Come ci ricordano le immagini dei vecchi abitanti che resistono davanti alla loro case suscitano certamente grande pietas e umanità. C’è un radicamento delle persone ai luoghi di nascita e di vita che supera ogni fredda valutazione di merito.
Eppure anche su questo punto dovremo ragionare. In Italia ci sono 250 borghi abbandonati, e molti di più quelli che sopravvivono a stento salvati da pochi abitanti. Insieme ai nostri studenti al Politecnico li abbiamo censiti tutti, indicando per ogni borgo proprietario, anno di costruzione, anno di demolizione, cause dell’abbandono in un database disponibile a tutti. In molti casi l’abbandono ha fatto seguito ad evento sismico o un’alluvione, in altri è dipeso dall’isolamento e dalla povertà. Molti borghi muoiono per sempre. Non siamo in grado di salvarli tutti, né di ricreare condizioni di abitabilità là dove sono andate perdute.
La forma è la sostanza. Saremo capaci di generare nuova bellezza?
Se non può essere discussa la scelta individuale di rimanervi, dovrebbe invece essere oggetto di scelta politica consapevole decidere di investire moltissimi soldi pubblici in borghi collocati in zone ad alto rischio. Si tratta quindi di guardare a tutto il territorio e alle sue risorse, di operare per piccoli interventi diffusi ricreando spazi di socialità e relazione, valutando caso per caso, appoggiandosi a frazioni rimaste integre che magari possono facilitare processi di accoglienza e integrazione degli abitanti.
Qui, ancora una volta, la storia dell’arte e dell’architettura devono lasciarsi interrogare dalle scienze dure, dalla sismica, dalla geologia, dalla stessa ingegneria. Non c’è solo una dimensione estetica che può muoverci, o affettiva. Ci sono versanti delle montagne più sicuri, collocazioni più a valle o più a monte, la differente composizione dei suoli su cui oggi le scienze sanno dirci molto. La valutazione degli “effetti di sito”, come li chiamano i sismologi, i quali possono ampliare o meno le onde sismiche, deve essere condizione preliminare ad ogni edificazione.
Oggi non mancano i mezzi per coniugare bellezza e tecnica, per decidere secondo scienza e coscienza dove sia meglio costruire. Non possiamo più disgiungere l’arte e la bellezza dalla scienza e dalla tecnica: se i nostri antenati non avessero osato di più non sarebbe mai nato l’ardimento del Rinascimento o del Barocco, sostenuti dalle nuove conquiste fisiche e matematiche. Da tempo siamo incapaci di generare nuova bellezza, forse perché abbiamo separato la forma dalla sostanza, la tecnica dall’estetica, l’anima dal corpo, rincorrendo il feticcio ora dell’uno ora dell’altro. Spesso i nostri progetti mancano di senso dell’impresa, di voglia di provare a fare diversamente. Attraverso una dinamica consolatoria rischiamo di non cogliere i segni del nuovo, rischiamo di coprire il vuoto culturale e di idee del nostro tempo. Ogni innovazione richiede di perdere qualcosa, anche la certezza di rifare tutto uguale a come era.