È il tempo dei “placemakers”? Racconti di inventori dei luoghi che abiteremo

Ci sono diverse ragioni per cui il 2020 finirà nei libri di storia, compresi quelli dedicati ad architetti e urbanisti. Il primo è intrinsecamente legato al Covid-19: con la pandemia le città di tutto il mondo hanno cominciato a rimettere mano alle strade, alle piazze e agli spazi pubblici. Ad esempio disegnando nuove piste ciclabili, allargando i marciapiedi e chiudendo alcune strade alle auto per favorire biciclette e pedoni. L’altro fattore che ha reso il 2020 un anno degno di nota rischia però di passare sotto silenzio: “È stato l’anno in cui la massa dei materiali prodotti dall’uomo -dalle case alle infrastrutture, agli oggetti- ha superato la biomassa vivente, rappresentata dal mondo animale e vegetale. Questo fatto è l’equivalente della crisi climatica per urbanisti e architetti: abbiamo esagerato, abbiamo riempito la Terra di oggetti a tal punto che adesso serve un’opera di sottrazione, di de-costruzione”. Un compito che Elena Granata, docente di Urbanistica e studi urbani presso il Dipartimento di architettura del Politecnico di Milano, assegna a nuove figure professionali che ha ribattezzato Placemakers. Ovvero gli “inventori dei luoghi che abiteremo” per citare il sottotitolo del suo ultimo saggio (Einaudi, 2021). “Il placemaker non costruisce, ma connette, re-inventa, rigenera -spiega Granata-. Non deve aggiungere, semmai deve togliere. Il suo compito è quello di ridare senso a quei luoghi che lo hanno perso: dalle periferie cittadine alle aree dell’hinterland dove i campi sono stati abbandonati perché coltivarli non conviene più”._________Articolo completo su: altreconomia.itDi Ilaria Sesana

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