Gli habitat che fanno crescere l’impresa sociale
Gli habitat che fanno crescere l’impresa sociale
Esiste uno scarto profondo fra le parole e le cose, tra le asserzioni di principio e le prassi, nel nostro Paese. A parole tutti apprezzano le bellezze del paesaggio, la cultura e il cibo; tutti difendono la terra e l’agricoltura. Ma non sempre alla consapevolezza della ricchezza del nostro patrimonio artistico e naturale, corrisponde una altrettanto matura cultura civile, capace di esprimere con gesti concreti l’accudimento, la presa in carico e la difesa della cultura e dell’ambiente. Gli italiani, mentre lodano le ricchezze che rendono noto il nostro Paese, dimostrano nei fatti scarsa attenzione a come il territorio italiano venga maltrattato e svenduto agli interessi di corruttori, speculatori e mafiosi. La distanza tra percezione collettiva e diffusa di un valore (la Bella Italia) e comportamenti pubblici e collettivi (l’Italietta) appare evidente.
Siamo afflitti da una carenza di cultura civile che possiamo leggere nella duplice forma di un venire meno dei legami di reciprocità e dell’attitudine alla collaborazione tra le persone e di una progressiva disaffezione ed estraniamento dai luoghi. Relazioni interpersonali e interazioni con il proprio ambiente di vita vivono di riflessi e di ricadute reciproche: il peggioramento dei rapporti di fiducia e di scambio, il venire meno della felicità pubblica, il ritirarsi entro un orizzonte privato e borghese, s’intreccia con l’incuria verso l’ambiente e il paesaggio, che perdono valore e senso.
Se osserviamo i mondi sociali vediamo che spesso là dove è maturata una forte coscienza sociale ispirata ai temi della giustizia e dell’eguaglianza (pensiamo al mondo associativo, alla cooperazione sociale, ad alcune anime dell’economia solidale e civile), non sempre è cresciuta parimenti un’attenzione alla sostenibilità dei progetti e alle responsabilità ambientali del proprio agire. D’altro canto, spesso là dove si è sviluppata una forte attenzione al mondo naturale e all’ambiente non è stata coltivata un’attenzione alle questioni sociali, alla povertà, alle istanze dello sviluppo economico. Oggi dobbiamo riuscire a mettere insieme queste anime troppo a lungo disgiunte, provando innanzitutto a riflettere su quelle che Luigi Sertorio, definisce le “grandi disgiunzioni” della nostra cultura civile e collettiva: tra piano economico e ambientale, tra sociale e ambientale, tra urbanistica e ambiente, tra paesaggio e tutela dei beni culturali.
La rinascita di una cultura civile potrà avvenire solo a partire da una rinnovata e responsabile simpatia con i luoghi e da una nuova responsabilità per le comunità che li abitano. Un’attitudine del pensiero e insieme una qualità della prassi che insieme a Paolo Pileri abbiamo chiamato amor loci. Sentimento che è insieme di comprensione, di prossimità e di cura, attitudine alla cura per i nostri ambienti di vita, volontà di difesa e di tutela di quel codice spaziale e culturale che per secoli ha contraddistinto il paesaggio italiano. Una postura morale e intellettuale che deve diventare guida per il governo del territorio, strumento per ridestare l’identità civile e l’orgoglio per il Bel Paese, codice di un progetto e di un’azione politica attenta alla difesa della terra, del cibo e della natura, così come alle disuguaglianze e alle povertà.
Abitudini e inerzie culturali
E torno alla domanda iniziale. Perché a fronte di un grande patrimonio ambientale e paesaggistico, siamo così poveri di strumenti culturali per prendercene cura?
Lo scollamento tra pensiero e azione, tra principi e prassi, prima ancora che politica o tecnica, è innanzitutto questione culturale, che ha a che fare con i paradigmi di pensiero, con ataviche convinzioni e con la difficoltà di cambiare le abitudini del pensiero.
Non si può negare che una cultura civile attenta alle istanze del paesaggio, sensibile ai temi della conservazione del patrimonio culturale abbia da sempre incontrato inciampi e ostacoli, sopravvivendo a fatica entro nicchie di resistenza culturali. Già Antonio Cederna ha a più riprese tratteggiato i contorni di questa arretratezza, non mancando di individuarne le precise responsabilità in alcune figure pubbliche: politici, uomini di cultura, giornalisti, tecnici. E parimenti Giorgio Ruffolo già alla metà degli anni Ottanta ha provato a spiegare perché l’ambientalismo di allora non riuscisse a suscitare grandi simpatie nella società civile italiana ancorata profondamente a una sequenza di idola tribus, di idee consolidate, credenze, valori e disvalori sedimentati nel comune sentire e difficili da smuovere.
Credenze, ovvero tratti culturali radicati, che oggi potremmo provare a reinterpretare alla luce di tre aspetti.
Una forte e connotante visione urbano-centrica. Una prima matrice culturale può essere riconosciuta in quella visione urbano-centrica, dal forte impianto economicista e individualista, che ha pervaso tutta la storia dell’Italia Repubblicana e che si è posta nei confronti della campagna e della natura con un atteggiamento di netta superiorità. Questa prospettiva ha posto l’accento soprattutto sul fenomeno urbano, trascurando gli elementi di correlazione e di co-evoluzione tra le città e l’ambiente. Questa visione ha permeato profondamente la narrazione della storia del Paese e in particolare ha attraversato le interpretazioni storiche e urbanistiche. É comprensibile questo atteggiamento se guardiamo la particolare forma degli insediamenti, la loro origine e la loro continuità nel tempo: le città sono il dato strutturale dell’armatura insediativa europea – e italiana in particolare – hanno goduto nel tempo di una relativa stabilità e permanenza, che ne ha accentuato la rilevanza e il valore simbolico. Un dato che ne ha accresciuto la rilevanza ed il peso e che ha rinforzato una prospettiva di analisi e di indagine che si è concentrata su questa storia remota. Non a caso nel nostro paese gli studi di storia ambientale hanno una storia relativamente giovane e marginale.
Nelle facoltà di architettura e di urbanistica ha poi da sempre predominato lo studio dei processi e delle trasformazioni urbane, l’evoluzione delle forme e dei manufatti, perpetuando un’idea di ambiente come tema settoriale, più legato ad alcune discipline scientifiche o tecnologiche.
La matrice edilizia dello sviluppo italiano. Una seconda matrice risiede nella particolare accezione “edilizia” dello sviluppo italiano. Il Paese è stato accompagnato da una cultura, in parte, di rivalsa/rincorsa e, in parte, di fascinazione per uno sviluppo privo di regole, di attenzioni ambientali e sociali. La velocità del cambiamento, il desiderio di lasciarsi alle spalle l’arretratezza economica, la povertà e la fame, hanno generato un’adesione poco problematica ai temi dello sviluppo. La rincorsa verso un maggior benessere conquistato soprattutto attraverso i beni di consumo e il mattone, non ha lasciato margine alla cultura ambientalista, spesso liquidata come un lusso elitario che non possiamo permetterci. Nell’urbanistica moderna, questo convincimento ha permesso che si lasciasse spazio all’azione dell’edilizia anche non pianificata che doveva, secondo la sensibilità politica dell’epoca, trainare il paese fuori dalla crisi. Per trent’anni le leggi per la ricostruzione e i regolamenti di edificazione, provvedimenti di origine e matrice bellica e post-bellica, furono gli unici strumenti con cui decidere le sorti del paesaggio. La logica dei condoni degli anni Ottanta, la stagione di tangentopoli degli anni Novanta e di nuovo i condoni edilizi, le maglie larghe dell’urbanistica contrattata degli anni Novanta hanno creato le condizioni per vantaggi senza contropartite per gli attori privati, fino alla deriva finanziaria dei fondi immobiliari e dei derivati dell’ultima stagione.
Il convincimento – poi tradotto in politiche e prassi – che l’edilizia sia in ogni tempo e in ogni dove il garante e il volano dello sviluppo economico è tornato ricorsivamente nel dibattito pubblico, sia in fase congiunturale positiva, che nei momenti di crisi e di stallo economico.
Rilevanza degli interni e scarsa attenzione allo spazio pubblico. La terza matrice può essere riconducibile a un tratto tipico della cultura dell’abitare, che è divenuto in qualche forma anche il carattere di molte nostre città: la prevalenza degli interni sugli esterni, un’accezione di “abitare” che sembra coincidere soprattutto con confort e benessere personale, con un’attenzione rivolta principalmente alla cura degli interni degli alloggi. É la storia di un legame debole tra la comunità e il suo territorio, legame debole che è divenuto terreno di coltura di comportamenti opportunistici e disinteressati alla cosa pubblica. La prevalenza degli interni sugli esterni ha effetti sulla qualità dello spazio pubblico in quanto una città di soli interni rischia di trasformarsi in una “fabbrica di periferie e di spazi di bassa qualità”. A questo rinchiudersi negli interni corrisponde un progressivo indebolimento della polis, intesa come luogo della partecipazione, del confronto, della domanda di società e ambiente, della felicità pubblica. É la caduta dell’homo civicus che lascia spazio solo al suddito o al cliente, chiuso nel proprio particulare, insofferente ai limiti imposti dalla convivenza civile alla sua libertà individuale.
Ricomporre frammenti
Se un prolungato disaccoppiamento tra azione e principio genera disaffezione ai principi stessi e una caduta di interesse, se l’impotenza dei cittadini a difendere e cambiare l’ambiente intorno a loro rischia di tramutarsi in distrazione e in disattenzione, bisognerà lavorare in direzione opposta, cercando di cogliere il nesso di unitarietà tra paesaggio, ambiente naturale, il patrimonio artistico e la sopravvivenza della nostra identità collettiva più profonda.
Come ha osservato Salvatore Settis, «paesaggio, ambiente, patrimonio richiedono sapienza tecnica per essere tutelati: ma richiedono anche un’idea d’Italia, un’idea declinata al futuro”, in grado di riconoscere che il carattere distintivo dell’Italia, a differenza di altri contesti europei ed extraeuropei, è il forte tessuto connettivo tra patrimonio e contesto che lo ospita.
Un legame forte e costitutivo della nostra economia e della nostra cultura con il paesaggio che chiede di indagare e tutelare le continuità spaziali, storiche e culturali. «Sarebbe proprio questa condizione unitaria e fortemente coesa degli elementi che la Costituzione italiana recepisce, considerando l’ambiente come l’insieme di tutte le risorse naturali e culturali e intendendone la tutela come diritto fondamentale della persona e interesse fondamentale della collettività, guardando all’ambiente come sistema, considerandolo cioè nel suo aspetto dinamico, quale realmente è e non da un punto di vista statico e astratto. Questo paradigma “comprensivo” dovrebbe essere la base di concezione del patrimonio contro ogni riduzionismo economicista e la sua conoscenza e tutela rappresentare un “vero banco di prova della democrazia”».
Se lo scollamento tra parole e azioni è all’origine della povertà di cultura civile in cui siamo immersi, dobbiamo immaginare di lavorare sulle cuciture, sui nessi possibili in grado di connettere ambiti fino ad ora rimasti lontani. C’è bisogno, come ricorda Edgar Morin di un pensiero radicalmente ecologico, in grado di collegare ciò che è disgiunto e compartimentato, che rispetti il molteplice pur riconoscendo l’uno, che tenti di discernere le interdipendenze. Un pensiero che deve essere: radicale perché va alla radice dei problemi; multidimensionale perché incentrato sulle relazioni; ecologizzato, ovvero che invece di isolare gli oggetti studiati cerchi di leggerli nel loro ambiente culturale, sociale, economico, politico, naturale.
Un cambiamento che ha bisogno di attori nuovi, motivati a sperimentare sintesi inedite di pensiero e azione, che provino strade inesplorate. Oggi la partita “questione civile e ambientale ” non può essere delegata alla politica o al buon amministrare, non può essere appannaggio di pochi ambientalisti militanti, né può rinchiudersi nelle anguste stanze dell’accademia e della cultura alta. È questione urgente e trasversale, che deve intercettare la dimensione locale e amministrativa, il mondo del lavoro e dell’impresa, gli ambiti della formazione e dell’educazione. Rimescolando e scompaginando le carte.
Pensare e fare divengono cultura civile quando un imprenditore riconosce il valore del territorio in cui opera e comincia ad assumersi la responsabilità del mantenimento delle sue qualità paesaggistiche e sociali; quando un politico riconosce il ruolo vitale della biodiversità nella più piccola porzione del proprio territorio e comincia a preoccuparsi della produzione di cibo che quel territorio è in grado di generare; quando i cittadini si indignano se qualcuno aggredisce l’integrità del loro paesaggio, perché comprendono che il paesaggio che ci circonda “siamo noi”, sintesi straordinaria di natura, storia e cultura, esito di una storia umana e culturale che si è generata attraverso le “opere e i giorni”, la fatica di generazioni, la cura e la cultura che vi hanno dedicato; quando le istituzioni culturali e educative rinunciano ad ogni autoreferenzialità per parlare linguaggi comprensibili a tutti e adeguati al tempo presente.
È necessario attivare un circolo virtuoso tra pensiero e azione, tra sentimento e volontà, tra parola e progetto, tra pensiero ecologico e agire politico. Un pensare ecologico implica la capacità di cambiare prospettiva e porre domande radicali, leggere i nessi tra le cose, mettere insieme i frammenti, pensare che ogni nostra azione ha ripercussione sull’insieme, mettere in moto l’immaginazione per scartare e guardare avanti, lasciarsi interpellare dall’ambiente e dalle forme della natura. Un agire politico richiede capacità di traduzione dell’interesse collettivo in atti concreti, di misurarsi con la varietà dei contesti sociali e ambientali, avendo consapevolezza dei tempi brevi e dei tempi lunghi delle ricadute del nostro operare, dell’intreccio tra natura e azione umana e degli effetti di quest’ultima sulla prima; significa padroneggiare meglio i meccanismi regolativi delle dinamiche che muovono la società; significa sapersi proiettare nel futuro con lungimiranza.
Solo coniugando un pensiero che non distingue (smart?) e un agire che si misura con la concretezza dei contesti di vita e con la nudità della vita delle persone (accogliente?) potremo cercare vie di uscita al guado culturale da cui il Paese stenta a riemergere.