Su cosa verte la sua ricerca?

«Potrei dire che la ricerca è cambiata con me, è cominciata appena dopo la laurea in architettura ed è cresciuta con me negli anni. I temi su cui ho lavorato sono tanti, dall’impatto dell’immigrazione sulle città, alla dimensione della povertà, alla rigenerazione urbana, tema della mia tesi di dottorato.«Però se dovessi dire quale sia il tema nel tema direi che è l’attenzione a come vivono le persone nei luoghi; questa è stata la cifra, la curiosità intellettuale di tutto il mio percorso: capire come vivono le persone, in quale modo si sviluppano le economie, la creatività, come si alimenta la dimensione sociale delle relazioni umane e come l’architettura può aiutare a migliorare e a rendere sempre più vivibile il nostro mondo».

E chi sono gli artefici di questo cambiamento?

«L’architetto tradizionale, quello che costruisce edifici, lo lascerei volentieri al passato. Oggi l’architetto è chiamato sempre più spesso a lavorare sulla dimensione dell’immateriale, sulla progettazione dei servizi, sull’interazione con la natura, sulla dimensione economica e sistemica delle città. Quindi il lavoro per gli architetti oggi è più appassionante di com’era nel passato, perché completamente rivoluzionato dalle istanze che il nostro mondo ci sottopone. «Questa figura la esprimo con un neologismo – placemaker – un ibrido linguistico che in italiano potremmo tradurre come l’inventore dei luoghi. Chi è l’inventore dei luoghi? E’ l’artefice di un cambiamento che parte dalle comunità e dai luoghi, che se ne fa carico in maniera eticamente responsabile e che sa partire dai problemi per trovare le soluzioni. Il placemaker rigenera e reinventa, riporta la natura dove l’abbiamo persa».

E quindi, a proposito di trasformazione dei luoghi delle città, come intervenire e investire nelle periferie?

«Le periferie nascono, rinascono, cambiamo nomi, le chiamiamo quartieri, però sono un prodotto di tutte le città. Sono quelle parti di città su cui si scaricano i costi sociali e i costi ambientali, che pagano magari il costo di essere meno accessibili, meno servite, meno infrastrutturate e soprattutto di avere un alto tasso di problemi sociali che non risolviamo altrove; ed è inevitabile che ogni città generi e rigeneri in forme diverse le proprie periferie. «Qui si accumulano problemi, degrado, marginalità, certo, ma sono paradossalmente anche i luoghi potenzialmente più creativi, perché là dove ci sono tanti problemi si sviluppano anche intelligenze, reazioni, insubordinazioni, capacità delle persone di attivarsi a partire dai problemi. E quindi la periferia è sempre il luogo della contraddizione. È nelle periferie che nascono e operano migliaia di associazioni di volontariato, dove si sviluppano energie sociali: per questo sono il contesto più interessante dove andare a fare ricerca e a capire come funziona il mondo o non funziona».

E in che rapporto sono con il centro delle città?

«Il problema non è soltanto ancorarle e renderle più accessibili rispetto al centro urbano, ma fare il modo che le città siano un ecosistema con tante centralità, che non esista un solo centro dove siano concentrati tutti i valori immobiliari, sociali, culturali, ma che tutti i quartieri, tutte le parti della città, anche le più periferiche, possano ambire ad avere dei valori urbani propri.«In questo, ad esempio, Milano ha lavorato tanto, potenziando le risorse progettuali dei quartieri. Quindi la logica non è stata quella di rendere il centro più accessibile, ma di spingere verso un policentrismo, un insieme di centri collegati, un ecosistema di luoghi che funzionano, ciascuno con la propria differenza, capace di integrarsi con tutti gli altri.«Ma molto bisogna ancora fare. Quello che manca in periferia è la biodiversità, avere un mix di cose diverse, uffici, case, mercati, scuole, musei; invece spesso ci sono case, anche pubbliche, ma mancano servizi, parchi, giardini, piste ciclabili, scuole di qualità. Qualche urbanista le definisce “le dieci ragioni per cui andare in un luogo”». 

Ed è possibile dare dignità e bellezza ai luoghi dove abitano le persone più povere?

«Sì. Abbiamo sempre l’idea che i luoghi dove abitano i più poveri non meritino bellezza, armonia, verde, stimoli. Spesso abbiamo dato una risposta pubblica – anche come urbanisti – pensando solo ad alcuni bisogni fondamentali: case, lavoro, sussidi, reddito di cittadinanza, trascurando di considerare che il desiderio di bellezza e la dignità di vivere in un posto bello è uno dei diritti fondamentali degli esseri umani.«Quando Amartya Sen parla di capability parla anche di questa capacità degli esseri umani di essere attiva, reattiva, propositiva nel proprio contesto di vita. Quando andiamo all’estero vediamo moltissime periferie curate, con una bella edilizia, una bella architettura con degli spazi urbani pubblici molto curati. È proprio perché la cultura delle periferie è diversa nel nostro paese: noi abbiamo una visione paternalistica, che pensa di dover offrire servizi e che questi servizi possano venire disgiunti da dignità e bellezza.«E invece l’appartenenza a un luogo e la possibilità di vivere in un contesto abitabile sono diritti inalienabili e primari, così come avere accesso a servizi, verde, spazi pubblici, scuole che funzionino anche in periferia, presidi sanitari, ospedali efficienti. La pandemia ha messo in evidenza quanta domanda di beni pubblici si stia levando dalle città: più salute, più istruzione, più ambiente, più socialità».

E anche il concetto di architettura, quindi sta cambiando?

«Sì. L’architettura ha sancito la propria insignificanza negli ultimi anni, la propria incapacità di indicare dei futuri possibili, ripiegata intorno a un’idea di costruzione del mondo che oggi appare anacronistica. Abbiamo costruito molto, in certi contesti troppo, saturando spazi, paesaggi, togliendo natura e sacrificando una forte vocazione agricola del nostro Paese.«Oggi le sfide sono chiare: la crisi climatica chiama gli architetti a lavorare sui temi della forestazione, delle acque, dell’energia, dell’autonomia alimentare e della salvaguardia del suolo e degli ecosistemi. 
I verbi di cui dobbiamo impadronirci sono: rigenerare, riportare la natura in città, ri-significare luoghi che hanno perso significato, riattribuire valore. È tutto un lavoro di ripensamento, di riattribuzione di anima e di valore, che ci porta a lavorare di più sulle dimensioni relazionali, sul valore della comunità, sulla felicità delle persone. Questo rende enormemente più bello, e anche più responsabile, il lavoro di architetto». 

Ci fa qualche esempio di rigenerazione urbana all’estero?

«Gli esempi più belli, che hanno segnato la mia vita, li ho incontrati nel contesto colombiano. La Colombia, come tutta l’America Latina, è un paese molto provato dalla povertà, dal conflitto, dalla violenza. Lì la rigenerazione è partita da sindaci-insegnanti che hanno messo al centro il tema educativo: l’accesso alla scuola, la scuola di qualità, la costruzione di biblioteche nei contesti più poveri. Qui ho riconosciuto la capacità dell’architettura di agire nei contesti più degradati come un forte elemento di riscatto social e come attivatore di promozione urbana.«Dall’America Latina ho riscoperto il valore civile dell’architettura, la sua capacità di innescare un cambiamento, partendo dalla vita e dalla cultura delle persone. Un’architettura alla colombiana lavora non solo sul “cosa” ma anche sul “dove” investire: decidere di costruire le biblioteche più belle del mondo nel quartiere più periferico, ad esempio a Medellin, scegliendo come localizzazione non la City, dove tradizionalmente troviamo l’architettura di qualità, è una scelta contro corrente e rivoluzionaria. Perché quel scegliere “dove, con chi, per chi” fa la differenza e innesca processi di autorigenerazione, di auto-promozione umana fondamentali; sono quegli effetti non voluti che l’architettura innesca quando promuove bellezza e appartenenza dove non te lo aspetteresti.«Oppure pensiamo alla scelta di Bogotà di investire sulle piste ciclabili, che non è una scelta nata da motivazioni ambientaliste, ma da istanze di eguaglianza sociale: tutti possano avere la bicicletta mentre l’automobile ce l’hanno solo i ricchi.«Ecco, questa visione del cambiamento che mette insieme la politica, l’ambiente, la dimensione sociale, la dimensione culturale è quella che oggi indica quali sono i progetti più innovativi al mondo e sono proprio quelli che hanno questa capacità di integrare tutte e tre le dimensioni, perché non ce ne facciamo più nulla di un progetto solo sociale, se non ha anche un impatto ambientale e viceversa». 

E in Europa?

«Andiamo sul sicuro nelle città del Nord Europa. Penso alla capacità, ad esempio, di Bjarke Ingels, architetto danese, di lavorare su temi per noi ancora marginali, come i rifiuti. Tutti conosciamo oggi il suo termovalorizzatore di Copenaghen, un’opera capace di tenere insieme questione energetica, bellezza, divertimento, cultura, cibo, tempo libero. Ingels ci dice che è possibile fare pace con i rifiuti, fare pace coi nostri scarti, diventare abili nella produzione di energia, entrare in un’ottica di economia circolare.

«A Copenaghen, l’autoproduzione energetica a favore di 60.000 abitanti della zona si coniuga con l’idea che il posto dove avviene la produzione di energia sia anche un luogo divertente. E quindi il termovalorizzatore è una pista dove si scia, ma è anche il luogo dove si va a mangiare perché ci sono i ristoranti stellati, e dove si fa cultura ambientale, perché ci sono dei laboratori dedicati alle scuole. Io credo in quello che Bjarke Ingels dice: “L’architettura non può più essere una sola cosa”. L’architettura deve essere risposta al cambiamento climatico, risposta alla voglia delle persone di socializzazione, capacità di produzione di bellezza, di senso e anche di attrazione turistica. «Anche la storia della High Line di New York [realizzato dagli architetti Diller Scofidio+Renfro. NdR] con il recupero del manufatto industriale della ferrovia, che diventa un parco lineare in mezzo ai grattacieli, ci insegna che il genio contemporaneo, l’architetto geniale del nostro tempo, è quello che sa trasformare un reperto, un avanzo, in un’occasione creativa.«Quindi, dalla ferrovia dismessa al parco lineare; dal termovalorizzatore che valorizza i rifiuti in cattedrale dell’economia circolare. Il genio non è un solitario come poteva essere un tempo l’archistar che porta da fuori la sua visione del mondo (anzi la cala dall’alto), ma è quello che maieuticamente, e sempre in team, trasforma i problemi delle comunità in soluzioni progettuali. Ecco, io qui ravviso il genio, colui che ha la capacità di guardare i problemi e trasformarli nelle loro soluzioni. «Sembra semplice, detto così, ma bisogna cambiare approccio fin dai banchi di scuola, e certamente da quelli del Politecnico. Abituare i ragazzi a misurarsi con i problemi di oggi, quelli fuori dalla porta di casa o a migliaia di chilometri da qui, abituarli a guardare i problemi perché dobbiamo essere molto lucidi nell’analisi, ma enormemente immaginativi nel modo in cui li risolviamo».

_____L'articolo di Francesca Pierangeli su: frontiere.polimi.it

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