La geografia di un'aula universitaria
La geografia di un'aula universitaria
Da anni osservo la disposizione dei miei studenti nell’aula e la creazione spontanea di piccoli gruppi. Avendo il primo corso del primo semestre del primo anno, gli studenti arrivano dal liceo che non hanno ancora relazioni significative tra loro.
Nelle prime file si posizionano i ragazzi o le ragazze con più alta motivazione, nella fascia centrale un gruppo più eterogeneo di studenti, in ultima fila gli studenti potenzialmente più a rischio di abbandono, salvo naturalmente l’eccezione sempre possibile dello studente timido che si mette in ultima fila. E poi si rivela il più bravo.
I ragazzi tendono a mantenere sempre lo stesso posto – da lì la mia facilità a ricordarne i nomi – e a mantenere i gruppi che si formano per tutto il corso degli studi. Questo giova enormemente alla loro vita universitaria. Si dice che gli architetti siano i pochi adulti che conservano tutta la vita le amicizie dell’università, abituati a lavorare sempre in team dal primo anno.
Il problema si pone quando escono dall’ateneo: rischiano di avere molti amici simili a loro, tutti che cercano lavoro nelle stesse reti, riducendo così le loro possibilità di fare incontri diversi.
Perché molte delle opportunità della loro vita dipenderanno dalla possibilità di incontrare persone diverse, molto diverse da loro. Di frequentare luoghi che non conoscono, di fare esperienze lontane da quelle che hanno programmato. È lì che si nascondono le grandi occasioni di crescita.
Secondo Tanya Menon – docente americana, studiosa di dinamiche di gruppo – farei bene a cambiare subito di posto i miei studenti, forzando la nascita di gruppi eterogenei. Le abitudini e le ripetizioni, fare sempre le stesse strade o mangiare negli stessi luoghi, limitano le nostre vite riducendo gli incontri imprevisti che sono esattamente quelli che possono aiutarci nel momento del bisogno. Ciascuno di noi applica automaticamente dei filtri sociali e ambientali, che ci fa giudicare le persone e rifuggire tra quelle che ci sembrano più simili a noi. E così viviamo come fossimo su un treno, tenendoci stretti i compagni vicini, senza pensare che siamo più simili a degli atomi che più si muovono e più generano energia nell’incontro con gli altri.
È la biodiversità che consente di moltiplicare la forza delle relazioni e le possibilità.
Lo constato costantemente nei percorsi di vita dei miei studenti internazionali. Adel, studente iraniano, ha iniziato l’università in Italia senza conoscere la lingua e senza reti sociali. Oggi, dopo tre anni, collabora con un’associazione culturale che lavora con gli stranieri, ha trovato lavoro, ha ottime amicizie, parla un italiano fluente e ha trovato casa in un luogo centrale. Paradossalmente, la sua energia si è alimentata nella mancanza. E il mondo intorno gli ha dimostrato di saper reagire.