La “prima volta” dei nuovi rigeneratori
Rigenerazione urbana: dalle cose alle persone
Prendersi cura dei luoghi, contrapporre un vitalistico desiderio collettivo di regalare una seconda giovinezza a edifici, piazze, borghi storici salvandoli dal loro inevitabile abbandono. La mission di queste quattordici belle storie è solo all’apparenza banale.
Sappiamo che aggiustare, riutilizzare, reinventare le cose, ci salva dalla condanna di continuare solo a consumarle. Che impiegare il proprio tempo per dare una seconda vita alle cose è un atto di civiltà, di attenzione ambientale, di sfida all’eternità. E’ un modo per liberarci dal possederle, dal conservarle gelosamente per sempre. Ci sono luoghi bellissimi ora abbandonati, ci sono paesi arrivati ai loro ultimi giorni, ci sono materiali storici e naturali che non sono più oggetto di cura.
Tutte le storie di questo libro ci parlano di questi luoghi. Raccontano esperienze di rigenerazione e di riuso, di riqualificazione e di rivitalizzazione, di riattivazione e di resistenza. Non a caso il prefisso “ri” allude alla ripetizione, alla seconda vita, a qualcosa che è stato e che può rinnovarsi nel tempo. Ma che c’è di nuovo in queste pratiche? Tutta la storia delle nostre città si è sviluppata all’insegna dell’uso e del riuso, della reinvenzione a partire dai materiali lasciati dal tempo.
In questo senso, riflettere sul consumo di suolo e sulla dissipazione, l’urbanizzazione, la perdita delle funzioni ecologiche e produttive dei suoli agricoli, è questione civile che riguarda tutti, non solamente i politici e gli addetti ai lavori. Una riflessione che chiede di misurarci in modo radicale con questa domanda: perché a fronte di un grande patrimonio agricolo, ambientale e paesaggistico, siamo così poveri culturalmente di strumenti (regole, prassi, politiche) per prendercene cura?
Dove sta lo scarto e il salto creativo rispetto al passato?
Ogni generazione ha adattato e modificato quello che ha ereditato. Per cogliere l’innovazione dobbiamo ribaltare il punto di osservazione.
Focalizzando tutta la nostra attenzione sulle cose (luoghi e i manufatti) – degni di avere vissuto una prima volta e ora ancora più degni di viverne una seconda – rischiamo di non cogliere l’attività delle persone (i rigeneratori), che sono invece la vera innovazione di questi processi di riuso.
Sono architetti, designer, antropologi, insegnanti. Hanno in tasca lauree non sempre spendibili nel mercato del lavoro, provengono dal mondo cooperativo o dell’impegno civile, sentono l’urgenza di collocarsi nel mondo.
A sorprendermi è il racconto della loro “prima volta”, il modo in cui si è fatta largo un’idea, come ha preso concretezza, trovato compagni di viaggio, bandi e finanziamenti che l’hanno resa possibile. Sono soprattutto le storie del sud Italia a rivelare il ruolo attivo di giovani professionisti che hanno avuto la capacità di individuare un bisogno e disegnare una strategia, di mettersi in rete e di lavorare insieme. Hanno provato a rompere gli schemi del passato per osare iniziative e imprese concrete.
Questi rigeneratori con le loro storie di cimento e di impresa ci fanno capire che prendersi cura dei luoghi significa prendersi cura (innanzitutto) di se stessi e del proprio destino. La posta non è salvare Ruvo di Puglia, Putignano, Pontecagnano, l’Aquila o Ravenna ma consentire alla propria generazione di mettersi al lavoro, di produrre ricchezza, di valorizzare le proprie aspirazioni.
Troppo a lungo abbiamo guardato ai luoghi come ad un bene in sé, coltivando un approccio nostalgico e storicistico. Come potessero avere una vita propria che prescinde dalle economie e dalla vita delle persone.
Al centro del cambiamento c’è una nuova generazione a cui sono state chiuse un’infinità di porte, che con leggerezza e ironia, con un vitalismo fuori dal comune, si sta mettendo in gioco: è cooperativa e collaborativa per cultura, crede nella partecipazione e nella possibilità di allargare il numero degli attori intorno al tavolo, crede nella ibridazione dei campi. Alla critica al sistema sembra avere sostituito una pacifica disponibilità a stare dentro gli spazi di gioco. Si è abituata a non demarcare troppo lavoro e tempo dedicato-gratuitamente, è disponibile a rinunciare a molte cose ma non a trovare senso e gratificazione nel proprio impegno. Nei casi più virtuosi politica locale, istituzioni, fondazioni si accorgono di queste giovani energie e le valorizzano come potenziali di cambiamento. In altri casi, meno virtuosi, esse diventano progettualità a basso costo, dentro sistemi politici e sociali che mantengono i propri giochi di poteri e di favori.
Per questo esperienze pilota e sperimentazioni innovative devono uscire dall’isolamento e fare rete. Servono pionieri coraggiosi ma anche condizioni di replicabilità per tutti.
Prefazione di Elena Granata al libro di Carlo Andorlini, Luca Bizzarri e Lisa Lorusso, Leggere la rigenerazione urbana, Pacini editore, Firenze, 2017.