Lavorare seduti in un parco o in un giardino pubblico, mangiare in improvvisati ristoranti all’aperto, studiare sui tavoli all’esterno di bar e locali, usare la bicicletta per andare al lavoro o nel tempo libero: ci siamo abituati senza fatica in questi ultimi due anni ad una nuova vita di strada.Anzi, si può dire che abbiamo riscoperto il piacere di stare all’aperto, dopo che per lunghi mesi siamo stati costretti ad una vita più domestica e casalinga.Fare cose ordinarie in città, può diventare persino straordinario: “fare cose, vedere gente”, mangiare e bere sui marciapiedi, fare tardi nei bistrot e nei locali illuminati fino a tardi. Parigi o Barcellona sembrano nate per questo, per farci stare insieme, per trattenerci a parlare e per accoglierci nella notte. Ma oggi lo sembrano sempre di più anche Bergamo, Ascoli Piceno, Parma, Salerno. Perché l'abitabilità di una città dipende sempre di più dal suo spazio pubblico e bisognerebbe ripensare le città partendo dagli spazi aperti, dalle piazze e dalle strade, dai lungomare, dai vuoti piuttosto che dai pieni.

Lo capiamo oggi più di due anni fa.Le città devono rispondere alle attese di cittadini sempre più consapevoli ed esigenti, che potremmo definire, super-urbani. Abitano e lavorano in città ma non ambiscono più al possesso del mezzo privato, usano mezzi pubblici, biciclette e sharing e chiedono più verde, più qualità dell’aria, più vivibilità dei quartieri, sono disponibili a condividere di più con i vicini di casa, in un ottica di riduzione dei consumi (pensiamo al successo di app come Nextdoor che mettono in rete cittadini di uno stesso quartiere per condividere informazioni, servizi, relazioni).

È vero che stiamo tutti più a casa; lo smart working diffuso, ci ha certamente ricentrati sugli spazi privati delle abitazioni, dove attività di lavoro e di cura, private e pubbliche si contendono ogni centimetro quadrato disponibile (non sempre in modi e forme conciliabili), ma tempi di vita meno compressi ci consentono anche di riscoprire la vita di prossimità e di quartiere, il piacere di fare la spesa nei piccoli negozi, le passeggiate a piedi.Il virus ha agito in questo senso da vero “urbanista”, imponendo cambiamenti negli assetti e negli usi degli spazi urbani, anche nelle città con minore cultura dello spazio pubblico, cambiamenti che altrimenti non si sarebbero verificati. E questo è avvenuto in contesti predisposti ad uno stile di vita mediterraneo ed estroverso come Napoli o Palermo, abituate alla vita di strada, allo street food possibile ad ogni ora del giorno e della notte, ai locali aperti tutto l’anno e non solo nelle sere d’estate, ma anche in città dal carattere più introverso. 

Paradossalmente gli esperimenti più interessanti sono stati fatti proprio in città fredde e poco abituate all'open air. Imperativo categorico delle città canadesi, che tutti associamo a freddo e inverni polari, è stato più vita all’aria aperta per tutti. In piena pandemia, Montreal ha installato ventisei “stazioni invernali”, con luci, gazebo, sedute e piccole attività commerciali capaci di attirare gli abitanti dei quartieri e facilitando l’uscita di casa anche nelle sere più fredde. Toronto ha avviato un piano-parchi dedicato agli sport invernali, installando sedici km di sentieri o “anelli di neve” per incoraggiare nei cittadini la pratica dello sci di fondo. Calgary, città della provincia dell’Alberta, ha favorito l’uso di “fuochi comunitari”, piccoli bracieri pubblici che i cittadini possono prenotare on line prolungando così la permanenza fuori casa anche a temperature molto basse. In forme simili le città più calde dovrebbero predisporre dei piani-parco per l’estate, favorendone l’uso nelle ore serali e notturne consentendo di godere delle temperature più miti proprie delle aree verdi. Forse l’unica vera alternativa al dover scegliere “tra la pace e il condizionatore” provocatoriamente proposto dal premier Mario Draghi e in tempi di possibile razionamento delle risorse energetiche.

Quello che è emerso dal caso canadese, supportato anche da una ricerca condotta dal governo nel 2020 sull’uso dei parchi pubblici, è comune a molte grandi città: è cresciuta l’abitudine di frequentare i parchi con particolare preferenza per quelli vicino a casa; cresce la domanda di spazi verdi “sotto casa”, perché stanno cambiando abitudini e geografie della nostra vita quotidiana, e gli abitanti anche di grandi metropoli cercano spazi verdi accessibili e comodi da raggiungere senza l’uso dell’automobile. Gli effetti positivi della natura sulla salute collettiva sono ormai universalmente riconosciuti, con benefici che vanno dalla riduzione dello stress al miglioramento del benessere psicologico, da una migliore salute cardiovascolare ad una diminuzione della prevalenza di diabete. Non da ultimo - una lezione che in Italia abbiamo fatto più fatica a recepire - l’uso degli spazi naturali è stata fondamentale per il contenimento dei contagi, contribuendo a limitare la permanenza prolungata dei nuclei familiari dentro le case o in altri spazi chiusi (come uffici, scuole, università). Un elemento che dovrebbe orientare la progettazione urbana dei prossimi decenni. Qualcosa sta in effetti cambiando. Possiamo dire che il 2020 è stato l’anno del test planetario sugli spazi aperti. Con la pandemia le città di tutto il mondo hanno cominciato - per necessità e non solo per virtù - a rimettere mano alle strade, alle piazze, agli spazi pubblici. Da Lima a Liverpool, da Milano a Oakland, da Parigi a Barcellona, le amministrazioni hanno cominciato a investire su soluzioni alternative per muoversi, cruciali anche per contrastare gli effetti del cambiamento climatico: molte strade sono state chiuse alle auto e aperte alle biciclette, i marciapiedi di alcune parti di città sono stati allargati, sono state sperimentate piste ciclabili temporanee in grado di offrire da subito un’alternativa ai mezzi pubblici o privati.

La pandemia ha, in certo senso, tolto l’ultimo velo di ipocrisia sulle nostre vite metropolitane. Risultano anacronistiche le città organizzate a misura di automobile. Oggi sono Barcellona, Parigi, Oslo, a segnare la direzione giusta con progetti che intendono contenere e ridurre drasticamente l’uso delle auto in città così come, e qui sta la vera novità, l’uso esteso delle strade a parcheggio.

Quante altre cose si potrebbero fare per strada se i marciapiedi non fossero occupati solo da auto parcheggiate. Quanto spazio si libererebbe per il commercio, la ristorazione, il tempo libero, con effetti positivi non solamente sulla abitabilità diffusa ma anche sul valore economico e commerciale di quelle zone. Se non possiamo pensare di eliminare le auto dalle città da un giorno all’altro, possiamo certamente sostenere alcune spinte culturali in corso: una minor domanda di possesso di automobili, unita a una maggiore domanda di spazi aperti di prossimità. Il progetto urbano può provare a trovare soluzioni di mediazione, applicando una semplice regola incrementale di organizzazione urbana: la regola del 50%. Quando una strada ha due marciapiedi uno lo lasciamo a parcheggio e il secondo a piantumazioni, panchine, sedute e orti urbani; quando ci sono viali e controviali (cosa già sperimentata a Parigi) i controviali vengono destinati solo ai pedoni; tutte le strade in prossimità di scuole e asili debbono essere protette da filtri di alberi e natura. Un compromesso certo, ma nella giusta direzione.

_____L'articolo pubblicato su: elledecor.com

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