L'archistar si sta estinguendo. Inizia l'era del placemaker.

È morta l'archistar, viva il placemaker. Io in verità, da conservatore che sono (da conservatore dell'antropocentrismo, tanto per cominciare), avrei preferito che al posto dei Frank Gehry e dei Renzo Piano venissero finalmente in auge i Léon Krier e i Pier Carlo Bontempi, protagonisti di un'architettura neovitruviana, a volte neopalladiana, che sa coniugare forma, funzione e tradizione. Ma non si può avere tutto dalla vita e di questi tempi neoapocalittici bisogna sapersi accontentare... Allora sono qui che mi impegno a farmi piacere Placemaker. Gli inventori dei luoghi che abiteremo di Elena Granata (Einaudi, pagg. VIII-166, euro 16,50). Ci riesco senza sforzo già a pagina 14 dove comincia il capitolo «Architetture fuori luogo» in cui leggo un'ossigenante critica alla troppo esaltata Fondazione Prada, definita «un monolite, un masso erratico, una presenza muta al di fuori del suo muro di cinta». Parole perfette per una struttura che è al contempo una meraviglia architettonica, penso alla torre dorata, e un nulla urbanistico (architettura e urbanistica sono due cose diverse, bisogna ricordarlo sempre). L'autrice, per l'appunto urbanista al Politecnico di Milano, spiega che assoldando Rem Koolhaas un tale risultato era quanto di più prevedibile. Perché l'archistar olandese il suo nichilismo lo ha sempre ostentato, praticandolo da decenni in entrambi gli emisferi e teorizzandolo in numerosi testi. Il suo slogan è «Fuck the context» e in effetti del contesto milanese se n'è cinicamente fottuto. La sua città ideale è l'esatto contrario delle città ideali del nostro Rinascimento, Pienza, Palmanova, Sabbioneta, Terra del Sole, essendo «fatta di episodi disconnessi, deprivata di identità, affetta da amnesia, con architetture fuori scala che separano e non integrano, non fanno più parte di alcun tessuto». Sono parole che inchiodano non un singolo architetto ma un'intera categoria. _________Articolo completo su: ilgiornale.itDi Camillo Langone

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