Le città che saremo
A cura di Elena Granata e Fiore de Lettera
Le piazze sono vuote,le città no
Non sono vuote le città, come sentiamo spesso ripetere. Le vediamo vuote se le facciamo coincidere con il loro spazio pubblico e se pensiamo che si esauriscano nella loro immagine metafisica, spiazzante, che i giornali e i social ci propongono da settimane.Piazza Duomo a Milano, San Marco a Venezia, il Campo di Siena; potremmo fare il giro delle piazze vuote del mondo, così ammalianti, così ansiogene. Ma per chi sa guardare, non soltanto con gli occhi, le nostre città restano piene di vita, di corpi e di anime - le nostre - che rimangono invisibili: vite compresse nei modesti o preziosi formicai che sono le nostre case. Le città sono spaventosamente liriche agli occhi, nella loro desolazione. Ma sono capaci di un’altra poesia anche più intensa ché tutta umana, perché ha la sensualità delle mani, dei gesti e dell’umidità del corpo che la produce. La poesia di Francesco, un papa bianco, solo, che risale lentamente la scalinata in San Pietro. Nessuno di noi aveva mai potuto vedere quel luogo senza persone, ma è stato un vuoto carico di presenza, amplificato in modo assoluto dai mezzi di comunicazione.Oppure la chitarra di Jacopo Mastrangelo, vent’anni, che suona Morricone dal terrazzino di una piazza Navona deserta. Musica che solo nel vuoto impossibile di un luogo maestoso riesce a farsi ascoltare così potente. Bellezza assoluta, di Dio e degli uomini, del sacro e del profano. Indistinguibili. Certo, c’è vuoto e vuoto. Il vuoto tragico di Bergamo, con il suo dolore, non è il vuoto di Roma, oggi.
Il vuoto lo sentiamo nelle nostre teste. È dentro di noi. Sentiamo lo smarrimento di un tempo che si è dilatato, sentiamo l’ansia, quel non riuscire neppure a leggere o a pensare con profondità alle cose che facciamo. Perché abbiamo inaspettatamente un tempo eccedente, aperto davanti a noi che ci rende più difficile essere lucidi.In queste settimane di quarantena tutti capiamo che è entrata in crisi la nostra stessa idea di abitare, che nella sua accezione più profonda non si esaurisce nella casa, ma la trascende, altrimenti non faremmo così fatica ad accettare questo tipo di isolamento; si gioca in quell’equilibrio fragile tra interno ed esterno, tra necessità di appartarsi e richiamo della vita collettiva. Siamo feriti nelle certezze, divisi negli affetti, separati da chi amiamo. Desideriamo quanto ci viene proibito, come la prossimità con le persone più care. Si legge in tanti una sincera voglia di cambiamento, forse perché capiamo che potrebbe essere davvero l’occasione di un reset collettivo (anche minimo), confortati dalla sensazione che se tutti cambiano, possiamo anche noi rimetterci in gioco, senza necessariamente perdere terreno rispetto agli altri.Capiremo solo nelle prossime settimane se questi sentimenti saranno stati profondi e radicati, oppure legati alla fragilità emotiva del momento.
Come vivremo insieme domani? Nessuno può dirlo. Il quadro è radicalmente incerto: tutto potrebbe cambiare o tutto potrebbe restare com’è. Questo periodo dimostra chiaramente quanto basti un minimo ottimismo nella comunicazione dei dati per cambiare l’umore collettivo e riportare la gente in strada.Pensiamo ad altre minacce globali, come l’11 Settembre delle Torri Gemelle, oppure ai due anni di minacce del terrorismo internazionale legato all’ISIS o ancora alla crisi economica del 2008. Anche in quelle situazioni molti studiosi andavano decretando la fine del modus vivendi occidentale, di uno stile di vita ispirato alla prossimità e alla convivenza negli spazi urbani. In realtà, l’assetto è cambiato ben poco e molti elementi di resistenza e resilienza hanno fatto sì che la vita nelle città dopo qualche mese di assestamento proseguisse, nonostante i pericoli e le minacce, in forme non dissimili rispetto al passato. È chiaro che la minaccia del contagio e la diffusione di forme virali come quella che stiamo vivendo introduce un elemento di complessità in più: un virus mina la natura stessa dell’urbanità, che è basata sullo scambio, la prossimità, la mescolanza, la convivenza serrata tra persone. Nel prossimo futuro il mondo saprà sicuramente trovare il vaccino e l’allarme rientrerà, consentendo di ritornare gradualmente alle nostre abitudini. D’altra parte è plausibile che questa esperienza, impressa sulla nostra pelle di cittadini, possa alterare più durevolmente la nostra percezione del rischio e della sicurezza, sia sul piano personale sia su quello collettivo.
Non cercare capri espiatori ma correlazioni utili a capire.Un certo ambientalismo pecca di moralismo quando cerca di spiegarci che tutto quello che viviamo non è nient'altro che la risposta della natura alla azione nefasta dell'uomo. Ambientalismo che in questi ultimi anni si stava poco a poco liberando da quel colpevolismo che per decenni ne aveva segnato la sconfitta.Una certa critica al capitalismo (anche tra gli studiosi dell'economia civile che sentiamo più vicini) si affretta a puntare il dito contro la degenerazione del profitto, del consumo, della gestione dei beni e delle risorse naturali. Per non parlare del moralismo latente in tante critiche sociologiche che, di fronte ad una sfida innanzitutto sanitaria, si attardano a riconoscere le critiche comunitarie, relazionali e affettive del nostro tempo. Certamente spunti condivisibili sono presenti in ciascuna di queste letture.Ma serve a poco.Esistono la questione ambientale, la crisi della dimensione comunitaria e un capitalismo che ha fatto moltissimi danni - in nome del profitto - ma dobbiamo fare i conti con questa singolare crisi epidemiologica nel modo più laico, razionale, freddo e lucido possibile. Dobbiamo partire dai dati, dalle correlazioni che cominciano a profilare e che suggeriscono piste di ricerca, come quella seguita da Leonardo Becchetti sulla relazione tra aree ad alto inquinamento e propagazione del virus ( http://www.vita.it/linquinamento-favorisce-il-virus-svolta-green-per-uscire-dallemergenza ) per capire cosa sia successo ed avere strumenti adeguati alla programmazione della ripresa in modo sostenibile per la salute e per l'ambiente; per capire la correlazione con l'uso di sostanze stupefacenti ad alto impatto sui polmoni; per capire perché sembrino particolarmente esposti più gli uomini che le donne, (discrepanza molto sensibile in Italia rispetto agli altri Paesi); per capire quali emissioni ambientali siano più dannose e possano costituire habitat propizi per Covid e nuovi virus. Insomma, dovremo mettere in campo ricerche sistemiche in grado di correlare dati ambientali, demografici, economici, legati agli standard medici.Potremo forse capire cosa sta succedendo e attrezzarci per il futuro solo mettendo in evidenza le fragilità dei territori. Fragilità differenti da quelle che abbiamo studiato finora e che riguardano contesti sia poveri sia ricchi (ma inquinati e mal governati dal punto di vista della salute, come la Lombardia), con popolazioni di età e stili di vita diversi.
Densità non è sovraffollamento
Com’erano piene le piazze fino a pochi mesi faCi basta tornare indietro di poco per ricordare che le città non erano mai state così straripanti di persone. Sotto la spinta propulsiva di Greta Thunberg, milioni di giovanissimi sono scesi nelle piazze di tutto il mondo facendosi portavoce - pacificamente e in modo creativo - di un ambientalismo nuovo. La crisi climatica, nei suoi aspetti ecologici, sociali e politici, è stata al centro di un movimento dal basso che ha mobilitato la gioventù sia dei paesi ricchi sia di quelli più poveri, dove gli effetti del climate change si stanno facendo sentire in modo meno sopportabile.In forme simili, pacifiche e svincolate dalle forme tradizionali di impegno politico si sono manifestate le piazze del malcontento politico, come in Italia le Sardine. Sono nate quasi sempre da una recriminazione apparentemente marginale, come l’aumento di una tariffa nel trasporto pubblico in Cile, della benzina in Francia o nei costi della telefonia, ma che nascondono invece ragioni profonde, nelle diseguaglianze che non trovano voce né progetto politico. È una domanda di dignità di vita che porta in strada giovani (ma anche anziani) a Beirut con forme di mobilitazione non partitica. Così a Hong Kong, a Quito, a Teheran, ad Haiti. Nell’osmosi perfetta di reale e virtuale, il messaggio di Greta nasce nelle città, si trasferisce subito nel web e viceversa, perché la cultura social è sia causa sia effetto della mobilitazione di cui è capace. Salute vs Ambiente: come uscire dal dilemma?Molto del nostro comune destino dipenderà dalla capacità di tenere insieme la piazza piena di ieri e la piazza vuota di oggi. La prima esprimeva l’esigenza di proteggersi dalla crisi climatica, la seconda di proteggerci dal pericolo invisibile del virus.Ma crisi climatica e crisi sanitaria ci chiedono uno sforzo collettivo di intelligenza e di capacità di adattamento. I due temi, almeno in questa prima fase, non sono così facilmente conciliabili se passiamo dalla dimensione teorica a quella pratica.Qualche domanda tra le tante possibili: per tornare a vivere insieme useremo più auto private (per proteggere la salute) o più mezzi pubblici (per salvare l’ambiente)? La crisi del mercato automobilistico, che metterà in saldo tante auto in giacenza, spingerà molti ad acquistarne di nuove? Se sì quali? a benzina, ibride o elettriche? Sarà sostenibile un servizio di trasporto pubblico costretto a garantire distanziamento sociale a costo di una drastica riduzione del carico di persone o di un massiccio aumento dei mezzi?Questi sono i problemi a cui le amministrazioni dovranno rispondere considerando sia la razionalità sia l’emotività dei comportamenti collettivi. Come funziona la nostra testaC’è un problema a priori che riguarda il nostro modo di pensare, prima che le decisioni politiche. Le neuroscienze ci stanno insegnando che il nostro cervello è programmato per non recepire il pericolo quando arriva e per rimuoverlo non appena lo si scampa. Lo spiega bene Jonathan Safran Foer nel suo libro Possiamo salvare il mondo prima di cena. Perché il clima siamo noi (Guanda, 2019), a proposito dell’avvento del nazismo prima, e della crisi climatica poi. Abbiamo come umani un grande limite emotivo: il nostro sistema di allarme non reagisce a stimoli troppo concettuali; più è grande, ma intangibile l’emergenza, più facciamo fatica a reagire in modo tempestivo.Ciò spiega perché tanti ebrei durante la Seconda Guerra Mondiale non fuggissero davanti all’imminente pericolo della deportazione nazista. Ciò spiega perché non tutti sentiamo, eccetto i più giovani, il pericolo della crisi climatica. Ciò spiega perché la Comunità Europea, la Gran Bretagna o gli Stati Uniti abbiano fatto così fatica a recepire il pericolo dell’arrivo del coronavirus. Gli stimoli astratti, la comunicazione dei numeri non sono sempre elaborati dalla nostra coscienza e vengono derubricati a spam di cui liberarsi. Quello che muove davvero tutti - anche i più duri - è la forza emotiva ed empatica. Se si ammala o viene a mancare qualcuno della nostra cerchia più prossima, siamo improvvisamente sopraffatti dal senso di pericolo e passiamo dall’ascolto passivo del bollettino dei morti all’emozione sensibile. Greta non ha mosso milioni di ragazzi in tutto il mondo perché ha ostentato numeri o rivelato verità nascoste, ma perché ha messo in campo la sua improbabile presenza scenica, la sua giovinezza, il suo corpo, la sua parola. Ha osato dire - con tutto il suo modo di essere - che l’ambiente è cosa troppo importante per essere lasciata agli ambientalisti, agli scienziati, ai politici e, più in generale, ai soli adulti. È questione urgente e trasversale, che riguarda tutti. Dobbiamo riconsiderare davvero la dimensione affettiva della nostra vita. Greta si è rivolta ai ragazzi sapendo che le nuove generazioni sono già ambientaliste, per nascita. Non ascoltano parole, prediche o reprimende, imparano facendo, vivendo per via empatica, copiando e replicando modelli. Greta ha usato un linguaggio semplice e contemporaneo, ha parlato di future generazioni e di figli, con un’immediatezza che forse la generazione dei suoi genitori aveva perso. La paura si incarna nel corpo dell’altroAnche per la crisi sanitaria valgono le osservazioni appena fatte, ma con una piccola complicazione: in presenza di un nemico invisibile cerchiamo di costruirne noi una qualche rappresentazione. La grande città diventa così la materializzazione del rischio di contagio. A un livello più individuale la paura si incarna nel corpo dell’altro: è il vicino che incontro, il commerciante da cui faccio la spesa, lo sconosciuto che mi taglia la strada in questi giorni di quarantena. All’overdose di chat con cui riannodiamo amicizie, legami parentali e professionali, fa da contraltare la distanza timorosa delle relazioni per strada: non ci si sorride, ci si scansa, ci si parla il meno possibile. La paura astratta del virus diventa paura concreta del corpo dell’altro che si avvicina. È cruciale che si faccia un po’ di ordine e che si capisca che il concetto di immunità è strettamente legato a quello di comunità, certo attrezzata a gestire situazioni di rischio: - la densità urbana non è il sovraffollamento (o l’assembramento). Concettualmente ogni città nasce e si sviluppa per governare la moltitudine nello spazio;- la prossimità non è necessariamente promiscuità. Si può essere molto prossimi e concentrati ma anche distinti e distanziati. Ovviamente questo non può valere per le città informali (vedi favelas) dove la situazione è ben più problematica;- il rischio si gestisce meglio dove c’è densità di persone (che in caso di bisogno si possono isolare) e non dove c’è rarità, isolamento, solitudine, difficoltà a raggiungere i servizi.
Città e intelligenza delle connessioni
Nelle metropoli, in quanto sistemi ad alto tasso di biodiversità culturale, economica e sociale è più facile che si sperimenti quella che amiamo definire l’intelligenza delle connessioni: quella creatività che si nutre del surplus, dell’eccedenza di stimoli e proposte, della varietà di merci, cose, persone e idee in circolazione, ossia di quell’alto grado di disordine, di entropia proprio dei sistemi complessi.Quella capacità di cogliere nessi e correlazioni inedite. Grazie ad una tavolozza più ricca di possibilità, le capacità creative e di innovazione trovano un terreno più fertile, la libertà di poter sperimentare strade nuove senza pregiudizi e preconcetti: la libertà di pensare l’impossibile, o l’improbabile. Nel mio libro Biodivercity. Città aperte, creative e sostenibili che cambiano il mondo, (Giunti, 2019) ho provato a raccogliere una rassegna di casi che indicano modelli di sostenibilità accessibili. Alcuni progetti rovesciano il senso comune offrendo inediti spaccati di pensiero e di azione. Qualche esempio: le piazze di Rotterdam, concepite per allagarsi quando piove diventano un parco gioco per bambini e, al contempo, un grande bacino di raccolta per l’irrigazione urbana; il termovalorizzatore di Copenaghen, progettato come luogo di svago e tempo libero, è anche pista da sci, parete d’arrampicata e ristorante. Sono progetti che hanno l’ambizione di individuare la soluzione nel problema, e che non si accontentano di dare risposte semplici a problemi complessi. Progetti a cui non basta, in un mondo che voglia essere sostenibile, di essere una cosa sola; una piazza non può più essere solo una piazza, un ospedale non può più essere solo un ospedale. E così via. Oggi - nella crisi sanitaria - è questa stessa intelligenza delle connessioni che può salvarci, se riesce a diventare modo di pensare collettivo. Ha fatto il giro del mondo il caso dell’ospedale bresciano che di fronte alla carenza di respiratori, si è affidato all’intuizione di Isinnova, laboratorio creativo che ha trasformato una maschera da snorkeling in un respiratore di emergenza. L’idea è di un ex primario dell’Ospedale di Gardone Valtrompia, che tramite un collega dell’Ospedale di Chiari, viene a scoprire che da loro l’azienda è già attiva con la stampa 3D di valvole e tubi per respiratori.Alla soluzione si arriva attraverso una serie di connessioni rapidissime: dal primo scambio di informazioni tra colleghi al contatto con Decathlon (che regala 10mila maschere), alla sperimentazione in ospedale, alla divulgazione del format senza alcun brevetto, passano pochissimi giorni. In questi giorni la catastrofe sta accelerando questi processi e potrebbe trasformare il nostro modo di progettare. È proprio durante le crisi o le catastrofi che, venendo meno tante certezze, le persone si spingono più facilmente fuori dalle consuetudini, osando quello che non avevano mai pensato di fare. Sarebbe mai potuto venire in mente a qualcuno, in tempi sereni, di proporre una maschera da sub al posto di un apparecchio medicali? Ovviamente no. È lo stato di necessità che ha consentito di mettere in relazione intelligenze e ambienti che altrimenti non si sarebbero mai incontrati, rimediando alle mancanze della burocrazia, della politica, del mercato.Il modello d’azione che si produce è una rottura logica, il cui esito è l’adattamento al sistema che è cambiato.Purtroppo in questi giorni abbiamo visto tante volte come i tempi della burocrazia e della politica siano il vero nemico della creatività che nasce dal basso; come i protocolli, le procedure, le validazioni standardizzate siano un impedimento all’innovazione. Così è stato, ad esempio, nella produzione di mascherine e di altri dispositivi di protezione, pur necessari e urgenti. Ogni dicotomia, infatti, impedisce l’innovazione per ridurre a soluzioni precostituite il campo del possibile, senza vagliare alternative e ipotesi non prevedibili.Per questo, potremmo dire che è necessario passare da ragionamenti fondati sull’o…o…, a ragionamenti fondati su e…e…. provando a cogliere nessi nuovi tra temi che di solito vengono considerati antagonisti. UN'AGENDA PER I PROSSIMI MESI E grandi ospedali e piccoli presidi sul territorio. Tutti gli accorpamenti di presidi sanitari, ispirati al risparmio e al disinvestimento economico, sono stati concepiti per investire risorse solo su pochi e grandi ospedali, riducendo le piccole unità sul territorio e impoverendo di presidi locali vaste aree interne. Oggi capiamo che la gestione della pandemia avrebbe richiesto e grandi ospedali e piccoli presidi territoriali e capacità di intervento diffuso a domicilio. Abbiamo compreso come la salute pubblica sia legata ad un’efficiente regia che tenga insieme un sistema di intervento a più scale e a più livelli, con operatori diversi, ciascuno formato a rispondere solo del proprio circuito. Questo prevedono, d’altro canto, tutti i piani di intervento legati alle grandi emergenze: è la regia, dunque, intesa come connessione tra i poli della rete, a determinare o meno il successo dell’intervento su ampia scala. Si sarebbe così evitato il precoce collasso del sistema ospedaliero per grandi poli, sovraccaricato dalle necessità, divenuto esso stesso focolaio di trasmissione. Abbiamo capito con immense perdite umane quanta importanza abbia una razionale ed efficiente organizzazione territoriale dei servizi: i presidi medici, che abbiamo in questi anni smantellato con colpevole tenacia, si sono rivelati l’anello più debole del contagio italiano. Abbiamo, infine, riscoperto quale valore abbia l’igiene ambientale come disciplina che organizza i luoghi e i flussi delle persone nello spazio. E grande distribuzione e negozi di prossimità. Dovremo ripensare alla relazione tra grande e piccola distribuzione, uscendo dall’odiosa retorica che fa preferire il piccolo al grande. O che racconta sempre del grande che si mangia il piccolo. Negli anni passati siamo stati abituati a vedere contrapposte le voci di chi sosteneva le ragioni dei grandi centri commerciali (e non coglieva il danno arrecato ai centri storici, ai piccoli comuni, deprivati dei negozi di prossimità) alle voci di chi difendeva più nostalgicamente mercati e piccole botteghe di quartiere (ma non coglieva il cambiamento epocale nei consumi cui hanno risposto i grandi supermercati). Oggi dovremo capire in quale modo avviarci verso un sistema ibrido, meno polarizzato, con nuove forme di cooperazione tra grande e piccola scala. E smart working e lavoro in ufficio. Dovremo ripensare in forme più ragionevoli e mature al lavoro da casa (in alcuni giorni della settimana), alla scuola a distanza, alla riduzione di tanti viaggi e riunioni inutili. Dovremo capire che farcene, dopo, di queste piattaforme di videoconferenza che se per un verso ci offrono grandi potenzialità d'uso, dall'altro dimostrano anche, in modo evidente, l’indispensabilità della nostra presenza fisica nei luoghi di lavoro.Anche in questo caso dovremo immaginare dei sistemi misti, valutando nel merito quali attività ciascuno potrà svolgere in autonomia e quali richiederanno condivisione e prossimità. Negli ultimi anni, il design degli uffici ha sposato con troppo entusiasmo l’organizzazione fluida e aperta degli spazi, arrivando a sacrificare l’idea della scrivania personale per puntare su grandi open space dove tutto è a vista e tutto è in comune. Sono stati eliminati gli uffici compartimentati a favore di sale riunioni a vetri, con separazione acustica ma non visiva. Ovviamente non sarà questa l’organizzazione spaziale più adatta per gestire il dopo-virus, ma non è questo il punto, perché prima o poi arriverà il vaccino.Ci piace piuttosto pensare oggi al virus come ad un occasione di ripensamento progettuale, tornando a qualche margine di separazione in più, per attribuire più valore alla privacy del lavoro e consentire a singoli o a piccoli gruppi di ritrovare una maggiore concentrazione, quando necessaria nell’arco della giornata. E economia e ambiente. Dovremo leggere con attenzione lo stretto legame tra quarantena delle città e riduzione dell’inquinamento, tra riduzione dei consumi di petrolio e aumento di quelli energetici. Fabbisogno energetico, mobilità elettrica, ciclo dei rifiuti restano questioni che dovremo affrontare in modo integrato. In queste settimane ci siamo stupiti spesso delle voci della natura in città, del ritorno degli animali, dell’acqua limpida e dei pesci a Venezia, dei fagiani nei parchi di Milano, delle cicogne, della qualità dell’aria nella Pianura Padana. L’inquinamento è calato in assenza di decisioni politiche, di provvedimenti che per anni i cittadini hanno chiesto senza esito. C’è stata un’inevitabile contrazione nella produzione dei rifiuti (soprattutto a causa della chiusura del comparto industriale) e si è pressochè azzerato l’inquinamento acustico, costante in Lombardia.Come faremo i conti con questa natura? Torneremo a vivere e inquinare esattamente come prima?
Il tempo come unità di misura
Siamo culturalmente abituati a ragionare sulle città a partire dallo spazio, secondo una logica mono-dimensionale. Come se tutto dipendesse dal buon disegno - in pianta - di edifici, spazi aperti, verde urbano e servizi. Ma le città - oggi più che mai - hanno molto a che fare quasi più col tempo che con lo spazio e dovremmo sforzarci di pensare a luoghi e comportamenti delle persone in tal senso. Se altri virus dovessero entrare nella nostra vita nei prossimi anni, non potremmo certo rinchiuderci in casa per sempre. Per esempio, dovremmo immaginare popolazioni diverse – bambini, giovani, anziani – che frequentano gli stessi luoghi in orari diversi, così da evitare sovraffollamenti e ottenere quel distanziamento sociale che in questi giorni stiamo sperimentando in forme estreme. Potremmo seguire l’esempio di Amsterdam che ha nominato un Sindaco della Notte, responsabile della gestione della città dopo il calar del sole. L’obiettivo di rendere più rarefatti i rapporti sociali in particolari momenti di crisi, potrebbe condurci ad ampliare l’accessibilità ad alcuni luoghi distribuita sull’arco delle 24 ore e non sulle sole 12 diurne. Potremmo seguire l’esempio di Bogotà che, in vista dell’arrivo del Covid19, ha proclamato tre giorni di chiusura della città in forma sperimentale, per studiare i comportamenti delle persone, gli effetti sociali ed economici, le capacità di risposta. E lo ha fatto settimane prima dell’emergenza vera, per riuscire meglio a gestire questo rischio che, nel loro caso, si somma a quello sismico e ambientale. Così la Grecia che ha optato con anticipo per la quarantena delle sue città, senza indugiare in ragionamenti opportunistici o solo economici, e, finora, i contagi limitati sembrano dare ragione alla tempestività delle sue scelte. In secondo luogo, dovremmo ripensare la relazione tra scala macro- e micro-urbana. Va in questa direzione la recente proposta politica di Anne Hidalgo, sindaca di Parigi: la “città del quarto d’ora” (Ville du quart d’heure) è un modo innovativo di ripensare la Grande Parigi, come un puzzle di isole con una certa autonomia vitale. Un quarto d’ora è l’unità di misura del suo progetto, che immagina di ripensare la città intorno a servizi e funzioni raggiungibili dai cittadini a piedi o in bicicletta entro quel lasso di tempo. È una metafora stimolante. Riporta la città ad una dimensione più umana, ad isole e comunità solidali, nelle quali siano presenti scuole, servizi al cittadino, negozi e tutto quello che rende confortevole il vivere urbano, lasciando più possibile a casa l’auto. Un’esperienza che diventa modello cruciale, positivamente, nei momenti di crisi e di pericolo per la salute. Il coraggio di fare (che gli altri non hanno)Oggi tanti scrivono “faremo”, “cambieremo”, “abbiamo sbagliato”, dilungandosi in slanci di solidarietà verso gli altri o afflati ecologici verso il pianeta. E fa specie leggere di tali conversioni socialiste, parole accorate di cambiamento e riscoperta di certi valori, proprio da coloro da cui non ce le aspetteremmo, quantomeno per primi. Sono certi manager, certi imprenditori, certi amministratori, certi politici: una certa classe dirigente che potere e responsabilità l’aveva anche prima, ma che proclama solo oggi, con doverosa retorica, di voler cambiare rotta. È l’emotività di questi giorni che fa crescere il senso di colpa per quello che non si è fatto finora o semplicemente il maggior tempo libero finalmente dedicato a pensare?Oggi siamo tutti più sensibili: ci emozioniamo scorgendo il ritorno della natura o ascoltando il racconto dei medici in corsia o di chi si prodiga per gli altri, mettendo insieme risorse e cuore. Ma sarà più difficile cambiare, quando, scampato il pericolo, non saremo più ostaggio della paura. E tornare alla vita di prima ci parrà la migliore sorte possibile.Servirebbe coraggio. Quel coraggio politico che ebbero alla metà dell’Ottocento Frederick Law Olmsted e Calvert Vaux che immaginarono il Central Park di New York, un parco che sembra naturale ma che fu progettato dalla volontà umana in ogni suo dettaglio.La città in quegli anni godeva di uno straordinario sviluppo urbano, erano sorti i primi grattacieli e lo spazio edificabile era un bene davvero scarso e quindi prezioso; il mercato e la pressione della rendita spingevano tutti gli attori urbani - politici, costruttori, architetti - a massimizzare i profitti. La sola idea di rinunciare a quel suolo apparve a tanti una cosa del tutto assurda.Ma è proprio in quel momento che la città - su suggerimento di un’urbanistica attenta al bene comune - riesce ad immaginare uno straordinario gesto di rinuncia, scegliendo di realizzare un grande parco a disposizione di tutti. Certamente si pensava alla salute delle persone ma più in generale il progetto rispondeva ad una moderna idea di benessere collettivo. Il Central Park rappresenta ancora oggi un’opera di bonifica ambientale e di ri-naturalizzazione per antonomasia, da cui possiamo imparare tanto. Il terreno preesistente presentava cave, avvallamenti, paludi e baracche abusive, che scoraggiava il sindaco di allora, Alexander Josephyn, dal proseguire nel progetto. Ma Vaux non si fermò di fronte alle difficoltà. E così fu.
Che cosa pensano gli animali?
Chissà che cosa pensano le cicogne tornate a volare sul cielo di Latina? E i fagiani che si vedono nei parchi di Milano? E le intere famiglie di conigli e di lepri che si avventurano fin dentro i centri abitati? Chissà che cosa pensano di questa umanità prima così ingombrante e onnipresente, improvvisamente scomparsa dagli spazi pubblici.In questo silenzio singolare che avvolge case e quartieri, si sentono solo loro. I tassi tornano a Firenze, i delfini nel mare di Cagliari, i pesci riaffiorano nella laguna di Venezia, dove mare e lago si mescolano non più disturbati da vaporetti e grandi navi. Due cavalli scappano dal Parco Forlanini e galoppano verso l'aeroporto di Linate a Milano. Le anatre passeggiano per Parigi, indisturbate, attratte da questo improvvisa scomparsa degli uomini. Ci svegliamo in piena città per il rumore di merli e cornacchie, saltuariamente interrotti dalle sirene delle ambulanze. Un capriolo è stato visto vicino a Pescara, i cinghiali si avvicinano a Bergamo. Chissà che cosa pensano di noi, quei due panda giganti dello zoo di Hong Kong, che hanno deciso di accoppiarsi, dopo dieci anni cattività. È bastato togliere gli umani, gli scienziati e i visitatori dalle loro esistenze, perché la natura facesse il suo corso. Possiamo cogliere questo improvviso e liberatorio muoversi degli animali come qualcosa che ha molto da dire. Perché presto usciremo dalle nostre case e non potremo dire di non averli visti né sentiti, nel silenzio e nell’ombra. Ci ricordano un’altra storia di animali, di uomini e di nuovi inizi.Dopo ben altra quarantena, durata qualche secolo, si racconta - tra la storia e la leggenda - che gli abitanti di Gubbio fossero chiusi in casa per paura di un lupo. Francesco d’Assisi varcò la soglia della città per incamminarsi a cercarlo. Appena fuori Gubbio, infatti, c’erano foreste e boschi, una natura selvaggia che nei decenni precedenti si era riconquistata territori in tutta la penisola. Nel Medioevo, la decadenza delle città e l’abbandono delle strade, innescata dal crollo della civiltà romana, aveva portato all’abbandono di campi coltivati, uliveti e vitigni e la vegetazione aveva invaso villaggi abbandonati e strade. È da questo isolamento, nella distanza tra le città, circondate da una natura che avvolge e inquieta, che nascono le nuove città europee. Isolate e sconnesse, impaurite e chiuse. Una gestazione feconda che consentirà ai nuovi nuclei di rinascere pian piano, di elaborare nuove lingue (tutte figlie del latino e tutte diverse, le lingue romanze), di inventare nuove architetture, arti e mestieri, nuove colture e culture.Francesco il santo esce dalla città, non ha paura. L’uscita dall’isolamento e dal terrore segna l’inizio della civiltà europea.