L’onda lunga del terremoto
L’onda lunga del terremoto
Fare presto è uno dei mantra con cui rispondere all’emergenza. Che si tratti di improvvise catastrofi naturali o problemi lasciati crescere nell’indifferenza, quando si manifesta un’emergenza la rapidità di risposta è forse la prima preoccupazione di chi si ritrova ad affrontarla. Basta pensare ad un terremoto: tornare rapidamente alla normalità – qualunque cosa essa sia – sembra l’unico modo a disposizione per fronteggiare l’emergenza. Fare presto è quasi sinonimo di fare bene: è dimostrazione di capacità tecniche, abilità gestionali, persino resilienza. Una capacità di tener botta, come dicono in Emilia, che però non fa i conti con l’onda lunga del terremoto.
L’onda lunga del terremoto (e di qualsiasi altro disastro naturale) è tutto ciò che accade a valle dell’evento. È quel periodo, variamente lungo, dedicato alla ricostruzione. Un periodo nel quale si cerca di tornare alla normalità, ma emergono quasi sempre imprevisti ed effetti inattesi: da una parte, i tempi lunghi e gli sviluppi accidentati della ricostruzione; dall’altra, le trasformazioni contingenti e i cambiamenti strutturali che si manifestano in forme impreviste e ben poco temporanee. La ricostruzione parte dall’idea di tornare al com’era, dov’era iniziale, possibilmente facendo presto. L’onda lunga di un disastro dimostra invece che il percorso è meno lineare di così: il disastro non è un incidente di percorso, un’emergenza da affrontare tornando in carreggiata il prima possibile; invece, è un cambiamento di percorso, che impone di capire verso quali nuove destinazioni ci si sta dirigendo.
Il terremoto dell’Emilia e la gestione della ricostruzione, ancora in corso, danno qualche esempio di cosa sia l’onda lunga del disastro. Tre esempi mostrano come si manifesta l’onda lunga quando si gestisce la prima emergenza, quando si forniscono servizi di base e quando si forniscono spazi di aggregazione.
A Cavezzo, uno dei centri più colpiti dal sisma, a pochi mesi dalla scossa erano già pronti i prefabbricati delle nuove scuole elementari e medie per i bambini del paese. Le scuole nel centro del paese erano state chiuse perché considerate insicure, ma ben presto riadattate per ospitare gli uffici comunali e gli ambulatori medici (a propria volta non utilizzabili). I due edifici scolastici sono diversi per qualità costruttiva: le elementari, realizzate dalla Regione Emilia Romagna in pannelli di legno x-lam, hanno già problemi di infiltrazioni; le medie, costruite anch’esse in legno grazie al contributo della Comunità delle Valli Giudicarie, resistono invece meglio. Entrambe le strutture, insieme ad altre 38 nuove scuole post-sisma, pensate come temporanee, hanno per legge un orizzonte di vita di 50 anni; tanto che per migliorare la vivibilità degli spazi delle due nuove scuole di Cavezzo è stata aggiunta l’anno seguente un’innovativa struttura polifunzionale con annessa una palestra, progetto di Carlo Ratti. Un ulteriore investimento da tre milioni di euro che sembra smentire spingere l’orizzonte temporale molto più in là. Flussi e abitudini degli abitanti del paese si sono già riconfigurati intorno alle nuove scuole periferiche; e tra qualche anno saranno nuovamente disponibili anche gli edifici scolastici del centro. Un paese di 7000 abitanti con sempre meno nascite si ritroverà così con due complessi scolastici. E al momento non ha nessuna strategia per gestire dotazioni sovrabbondanti e onerose per i bilanci comunali.
A Novi di Modena e in altri sei comuni, subito dopo il terremoto sono state costruite piazzole per le casette temporanee degli abitanti, in totale hanno sfiorato 750 unità. Aree a verde sono state rapidamente urbanizzate, dotate di parcheggi, fognature, allacci alla rete elettrica. Infrastrutture che ad anni di distanza dal terremoto restano però in balia della vegetazione. La risposta all’emergenza infatti è stata tecnicamente ineccepibile ma forse sovradimensionata: per permettere un insediamento temporaneo si sono realizzate le stesse infrastrutture di cui avrebbe bisogno un nuovo pezzo di città. L’area è pronta a diventare un nuovo pezzo del paese, dato che un ritorno alla condizione originaria è impensabile; ma ancora non è chiaro chi possa avere interesse a realizzare nuovi edifici in una cittadina ormai svuotata.
Torniamo a Cavezzo e stavolta al suo mercato, uno dei principali della Bassa Emiliana – prima del terremoto, contava fino a 5000 presenze ogni settimana. Per offrire uno spazio di aggregazione per la comunità, è stato realizzato un centro commerciale temporaneo, il Cavezzo 5.9: una struttura a due piani fatta di container, destinati a 17 attività commerciali, rimasta in attività per alcuni anni. Il progetto in sé è stato efficace, tanto che la struttura, smantellata, è stata portata ad Accumoli, paese colpito dal terremoto del Centro Italia. Eppure, le dinamiche del commercio locale ne hanno risentito: sono venuti meno i flussi e le abitudini che permettevano la vivacità del tradizionale mercato, al quale per alcuni anni è stata affiancata una struttura alternativa; e solo una parte dei commercianti ospitati nel centro temporaneo si sono spostati in nuovi locali commerciali a Cavezzo, mentre molti hanno scelto di trasferirsi altrove.
Ecco dunque cos’è l’onda lunga del terremoto: nulla è davvero temporaneo, ma l’emergenza, la ricostruzione, il post-disastro sono fasi transitorie dalle conseguenze permanenti. Fasi che poi è difficile affrontare immaginandole soltanto in modo lineare. Almeno tre elementi infatti rendono complicata la navigazione nell’emergenza e nel periodo che le fa seguito.
1. Le velocità diverse del territorio
L’emergenza e la successiva ricostruzione non avvengono per tutti alla stessa velocità. Intanto, è diversa la priorità data a ciò che va ricostruito: prima servizi di base come scuole e ospedali, poi case e imprese, soltanto alla fine il patrimonio culturale. Sono diverse le risorse a disposizione: molte aziende hanno investito i propri capitali o i risarcimenti delle assicurazioni per garantire una rapida ripartenza delle proprie attività, per aspettare in un secondo momento i rimborsi statali; non tutti però hanno avuto a disposizione risorse aggiuntive da cui attingere per procedere alla ricostruzione. I tempi dei diversi attori non sono poi sincronizzati: i pagamenti dei lavori svolti per la ricostruzione arrivano con mesi di ritardo (nel caso emiliano ad esempio la Regione pagava a 60 o 90 giorni); ciò ha portato al paradosso di imprese edili con moltissime commesse legate alla ricostruzione che si sono però ritrovate a dichiarare fallimento proprio per i ritardi nei pagamenti. Il territorio riparte quindi a velocità diverse, così come diversi i tempi su cui ragionano e agiscono i diversi attori.
2. Niente è come prima
Nei recenti casi italiani di catastrofi naturali, come i terremoti, i disastri si sono verificati in territori che stavano già vivendo una crisi. Economie tradizionali non più floride, paesi in via di spopolamento, cambiamenti strutturali nel tessuto sociale delle comunità locali: sono moltissimi gli elementi problematici che le zone colpite stavano fronteggiando, già prima del terremoto. In alcuni casi, decisioni dettate dall’emergenza hanno paradossalmente preso atto (in negativo) dei cambiamenti in corso: nel caso della Bassa Emiliana ad esempio il sisma è stato l’occasione per una centralizzazione di alcuni servizi sociosanitari, resi così più efficienti ma di difficile accesso per gli abitanti delle zone del terremoto. O ancora, la fragilità del territorio è diventata ancor più evidente: diversi comuni infatti hanno (ri)scoperto i corsi d’acqua che li attraversavano, con sponde sabbiose la cui consistenza inattesa ha costituito un imprevisto ulteriore nel corso delle opere di ricostruzione. Il disastro e la sua gestione mettono quindi di fronte ad alcuni cambiamenti strutturali del territorio, rendendo ancor più difficile immaginare che si possa semplicemente tornare a ciò che c’era prima.
3. Gli effetti permanenti del temporaneo
Come raccontano gli esempi della Bassa Emiliana, la gestione del post-disastro ha effetti di lungo periodo; un aspetto ancora più evidente nel caso di quelle catastrofi (come il territorio dell’Aquila del 2009) in cui la gestione della ricostruzione è stata complicata e si trova ancora lontana dal giungere a compimento. Gli effetti permanenti sul luogo sono molteplici. Cambia lo spazio, innanzitutto: a fasi alterne si avviano alcuni cantieri mentre altri si concludono, alcune opere vengono realizzate in breve tempo mentre altre richiedono lavori più lunghi, strutture temporanee sostituiscono per lassi di tempo più o meno ampi i luoghi consolidati della comunità. Di conseguenza, cambiano le abitudini d’uso dello spazio e i luoghi in cui una comunità si riconosce: un nuovo polo scolastico diventa luogo di aggregazione e generatore di traffico, mentre intorno alle vecchie scuole si trovano gli addetti delle nuove funzioni che ospitano o gli operai dei cantieri di ristrutturazione. Cambia poi la comunità nel suo insieme, specialmente se fatica a ritrovarsi nel nuovo territorio precario lasciatole dal disastro: ed ecco quindi che diversi paesi affrontano un forte spopolamento, la crescente depressione di chi rimane, persino cali eclatanti nei tassi di natalità. Solo i settori che sono riusciti a ripartire in fretta non sembrano aver davvero risentito del disastro: nel caso dell’Emilia ad esempio le attività economiche hanno retto bene, almeno laddove non stavano già vivendo periodi di crisi.
L’onda lunga del terremoto è quindi molto più della gestione dell’emergenza, o della ricostruzione che le fa seguito. Al contrario, diventa lo spunto a partire dal quale costruire un territorio che non potrà più essere lo stesso di prima.