Milano al bivio: città per tutti o del successo di pochi?

Finalmente si torna a parlare di Milano. Dopo anni in cui di Milano non si poteva dire che bene - città del nuovo miracolo, unica città italiana capace di muoversi su scala europea e globale, una specie di città-stato con un proprio destino indipendente dal proprio territorio e dal resto del Paese - tornano alla ribalta le voci dei delusi, degli esclusi, dei disillusi. Perché Milano in questi anni ha vissuto di una promessa implicita: in questa città puoi realizzare il tuo progetto, puoi investire i tuoi capitali, puoi far nascere una nuova impresa, puoi incontrare qualcuno o qualcosa che ti cambia la vita. Milano città dei giovani che vengono da ogni parte d’Italia, città di single, città degli universitari, città dove le donne possono ambire a un posto di lavoro degno di questo nome, città delle mille lingue e delle mille appartenenze, città dell’alto e del basso, della moda e delle mode che nascono e rinascono, città delle week e degli eventi. È nel suo codice genetico e nella sua forma urbana la metamorfosi e il cambiamento, nulla sta fermo per sempre, tutto può accadere o semplicemente finire e scomparire, senza apparenti traumi. E in questo suo mutare la città è sempre stata capace di lanciare un messaggio assolutamente liberatorio.Se la città cambia, anche tu puoi cambiare, se la città rinnega il suo passato, anche tu puoi rinnegare qualcosa di te. Se la città si trasforma anno dopo anno, se non è schiava della sua storia, del suo perduto splendore, anche tu, qualunque storia abbia, da qualunque sperduto sud tu venga, qualunque vita tu abbia vissuto, puoi cambiare, puoi diventare quello che vuoi. Ma cosa succede se quella promessa di benessere e di realizzazione personale non è più universale, destinata a tutti, ma restringe il cerchio intorno a pochi? Se al posto di attirare giovani talenti li respinge ed esclude?Qualcosa di radicale è accaduto con la pandemia. Sono emerse con più contraddizione le differenze di reddito, il costo della vita (mangiare, avere una casa, accedere ai servizi, poter contare su cure di qualità) è cresciuto in modo così intenso da rendere difficile vivere in questa città anche a fasce di popolazione un tempo benestanti, quel ceto medio che oggi fatica a mantenere gli standard di vita di un tempo. Sono aumentate le diseguaglianze, come puntualmente ogni anno ci ricorda il Rapporto Caritas. Oggi la città si nutre di un racconto dissociato. Da un lato, la città è tornata a muoversi, è tornato il traffico, i cantieri non si fermano, gli investimenti si moltiplicano, sono tornati i turisti e i prezzi delle compravendite immobiliari conoscono un’intensità che in città non si vedeva da anni; dall’altra, cresce lo scollamento tra le attese e le promesse e il malessere diffuso delle persone, soprattutto dei più giovani. La narrazione pubblica e dell’amministrazione insiste soprattutto sugli elementi di successo e di rinascita ma fatica a dare voce a quel malessere diffuso che diventa vuoto di senso e mancanza di speranza. Milano si racconta come città che attrae persone, capitali, imprese ma continua a perdere abitanti. Non sono i grandi numeri registrati durante la pandemia quando più di dodicimila residenti si sono allontanati dalla città scegliendo di vivere nelle seconde case o hanno fatto ritorno nelle città del sud Italia o nella provincia, spinti dalla possibilità di lavorare da remoto, ma fanno notizia le storie di giovani e famiglie in libera uscita.A lasciare la città sono soprattutto giovani e giovani famiglie prefigurando un paradosso di cui la politica locale non potrà non tenere conto: sono proprio i giovani, giovani creativi, capaci di impresa, attratti a Milano dalla sua promessa di libertà e possibilità di intrapresa, quelli che hanno fatto di Milano-Milano, i più penalizzati. Un processo di allontanamento alimentato certamente dai prezzi fuori controllo del mercato abitativo (che fa già evocare una nuova bolla immobiliare) e dal costo della vita in crescente aumento, spesso senza restituire servizi e qualità di vita.La città è a un bivio e la questione interpella in primis la sua amministrazione ma anche le grandi istituzioni locali, le Fondazioni, le Università, la Chiesa e il Terzo settore. Non a caso il nuovo Rapporto sulla Città della Fondazione Ambrosianeum, La Milano che siamo, la Milano che sogniamo vede tra gli autori l’arcivescovo di Milano Mario Delpini, il presidente della Fondazione Marco Garzonio, il rettore dell’Università Cattolica Franco Anelli, il direttore della Caritas Luciano Gualzetti.* Milano può scegliere, come tutti i segnali finanziari e immobiliari fanno pensare, di abbandonarsi all’ebbrezza di una nuova stagione di intensa produzione edilizia, di crescita della rendita, di grandi eventi internazionali capaci di portare ricchezza e nuovi investimenti, mettendo tra gli effetti collaterali il sacrificio di una generazione di cittadini giovani che andranno altrove. Oppure dovrà mettersi in ascolto dei bisogni che salgono prepotenti dai cittadini e danno segnali molto chiari. Non si può divulgare il racconto di una città green, dove si piantano milioni di alberi, attenta alla salute e al benessere dei cittadini e continuare ad avere livelli di inquinamento dell’aria che fanno ammalare; promettere spazi per una mobilità lenta e non investire su mezzi pubblici e piste ciclabili; invocare con slogan la città dei “quindici minuti” e non porre attenzione ai servizi per la salute, alla qualità di vita nei quartieri, alla pulizia delle strade, alla sicurezza degli spazi comuni; attirare con le sue università studenti da ogni parte d’Italia e dall’estero e poi negare il diritto alla casa, ad una casa confortevole e ad un prezzo accessibile; fare appello ai diritti delle persone e non recepire il rancore, il senso di insicurezza che si leva dai cittadini che usano la metropolitana, che abitano in periferia, che si sentono sempre più minacciati nella propria incolumità, come emerge dai fatti di cronaca più cruenti; apparire come modello di sanità pubblica e inclusiva e non considerare quanto questo modello sia oggi fortemente in crisi e ancora una volta penalizzante per i profili più poveri e fragili; confondere sistematicamente processi di valorizzazione immobiliare e di rendita urbana con la capacità di visione e immaginazione che da tempo è scomparsa dalla scena pubblica locale. Finalmente si torna a discutere di Milano, facciamo in modo che non restino solo le parole. * Insieme al mio contributo e a quello di altri studiosi come Rosangela Lodigiani, Giorgio Lambertenghi, Mario Colombo, don Matteo Crimella, Elisabetta Falck, Giovanni Fosti. Il Rapporto verrà presentato il 30 marzo presso la Fondazione.

Articolo pubblicato su rivista.vitaepensiero.it

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