Milano e uno sviluppo equo e sostenibile

Un diffuso entusiasmo e un respiro di sollievo

Aleggiava in città da qualche mese la sensazione che tutto dovesse dipendere da quell’improvvisa deviazione di rotta. Era il 2008 quando Milano vinse l’organizzazione dell’Esposizione universale del 2015, con una manciata di voti sulla turca Smirne.La forza simbolica di quell’annuncio fu direttamente proporzionale a quello che Luca Doninelli in quegli anni definiva “il crollo delle aspettative”, la fine di quel sogno di grandezza che negli anni Cinquanta e Sessanta aveva proiettato la città nel futuro, consacrandola capitale morale d’Italia, motore di sviluppo economico ed insieme civile. Quel sogno che era riuscito a tenere insieme le motivazioni di una classe dirigente con il comune sentire di tutta la città, si era ripiegato su se stesso lasciando il passo ad una graduale disaffezione ai luoghi, ad un sempre minore investimento sugli spazi comuni e sulla cultura. Quell’anno, anche i più ottimisti facevano fatica a leggere segnali positivi di cambiamento.Invece, una città tutta diversa stava nascendo da quel crollo. Una metamorfosi profonda della sua forma e della sua compagine sociale. Anno dopo anno, Milano ha cambiato pelle: ha attenuato quella sua naturale introversione, quella prevalenza degli interni sugli esterni - città bella solo nei suoi cortili privati e nascosti - ha ricominciato a progettare lo spazio pubblico, si è persino lasciata alle spalle il suo carattere austero, quello che tra gli anni Venti e la fine degli anni Cinquanta ne aveva disegnato il volto di borghesia operosa e ricca. E mentre mutava il proprio habitat la città ha visto mutare l’habitus dei suoi cittadini. E mentre cambiava l’habitus dei suoi cittadini, iniziava a cambiare anche la sua forma fisica, attraverso quella densità di nuove architetture, piazze, progetti, strade che ne fanno oggi un continuum di cantieri.

Energia che non ha un nome

Milano, come tante altre grandi metropoli del mondo, oggi possiede qualcosa che gli economisti faticano a quantificare, e persino a nominare: una sconfinata possibilità di scelta e una febbrile eccitazione. È una questione di energia, di umore, di tono generale. Quella sensazione che stia sempre cominciando qualcosa, una nuova rassegna, una settimana dedicata (al design, al verde, ai libri, alla musica, al sapere artigiano), che ci sia sempre qualcosa che accade e che ci stiamo perdendo.A Milano, si può andare al cinema tutti i giorni e vedere un film diverso, la multisala cambia programmazione tutti i mercoledì. Ogni domenica è possibile andare a teatro, al museo, alla pinacoteca, sentire un concerto in una bella sala o in un parco d’estate. In ogni angolo della città si trova cibo in abbondanza e per tutte le tasche, di ogni gusto e provenienza, ad ogni ora del giorno e della notte. Ci si può attardare nei piccoli negozi del quartiere o decidere di farsi portare la spesa a casa.Si possono fare infinite cose o decidere di non farle. Perché l’esperienza urbana non corrisponde solo a quello che i cittadini fanno, ma anche a quello che “non fanno,” ma vivono attraverso le esperienze degli altri. Questa esperienza fa crescere i nostri figli anche solo guardando come vivono gli altri: chi ha molto, chi ha troppo, chi non ha nulla, chi è qui da una vita e chi è appena arrivato. La precoce esposizione alla differenza, alla varietà, alla molteplicità degli stili di vita, delle culture, dei valori li prepara ad essere cittadini del mondo.Diceva Giorgio Gaber pensando a Milano: “Non si gode mai abbastanza di quello che si perde, mai. Ma ti rendi conto? Essere a casa e pensare, questa sera mi sono perso il Macbeth”. Nel paradosso, la città, ogni città, ha un senso proprio quando fa respirare Shakespeare anche a chi non va mai a teatro.

La città è l’aria che respiriamo

Aria pessima sotto il profilo ambientale ma galvanizzante sotto quello civile. Gli investitori economici e le imprese, gli studenti e i turisti di passaggio, i cittadini e gli attori del terzo settore sentono che si può osare, si possono mescolare i codici, si possono inventare nuovi stili di vita. Qui si moltiplicano esperienze di partecipazione dal basso, di condivisione di tempi e di beni: crescono occasioni di cooperazione ed economie condivise (economia dello scambio, nascita di imprese sociali, vitalità di start up e imprese giovanili, tutte diversamente riconducibili ad un settore Terzo rispetto a politica e mercato). Gli orti urbani sono una realtà in crescita come a New York o a Berlino, l’economia e la vita si organizzano in spazi di lavoro condivisi, dove sembra bello tutto quello che comincia con “co”, co-working, co-housing, co-marketing. Sembra, non sempre lo è, ovviamente.Mondi prima fortemente segmentati hanno cominciato ad ibridarsi, con una contaminazione crescente di stili. Il Terzo settore, prima decisamente confinato nel terreno della cura delle fragilità e delle marginalità, ha ampliato il proprio campo d’azione, occupandosi di verde urbano e spazi pubblici, di abitabilità dei quartieri, di mobilità lenta, attività culturali, consumi alternativi, imprese creative.Ma a stupire, soprattutto chi viene da altre città, non è solo la quantità di associazioni, di piccole cooperative, di start up, di volontari e neppure la loro densità territoriale, quanto la qualità di quello che fanno e la loro intrinseca originalità. I fattori determinanti dell’innovazione sociale - PIL Persone Idee Luoghi - qui ci sono tutti. E l’elemento che ne accelera la qualità è proprio la densità/quantità, come in ogni processo economico. Ingredienti cruciali anche per il terzo settore.Ovviamente quantità e qualità sono strettamente correlate. È l’eccedenza che in questa stagione della città sta producendo innovazione e qualità. Il terzo settore cresce proprio perché c’è una spinta propulsiva che deriva da un mercato in crescita e da una politica locale che crea equilibrio, e al contempo, diventa esso stesso fattore di eccedenza, che aumenta la biodiversità del sistema e in qualche forma lo tempera. Surplus, eccesso, pluri-culture, competizione sono il miglior tonico per l’innovazione sociale.Questa eccedenza di capitale sociale e di reti di fiducia, ha consentito anche a temi delicati come l’accoglienza dei migranti, di venire gestita e assorbita dalla società civile in maniera accorta e serena, e decisamente generosa, evitando l’innesco di conflitti locali. L’amministrazione ha saputo valorizzare le capacità diffuse nella società civile, talvolta si è appoggiata ad un tessuto sociale che sa “cavarsela”, altre volte ha trovato modi per costruire pezzi significativi di politiche pubbliche (sia su fronti sociali che ambientali).

L’equilibrio raggiunto è perfetto?

Ovviamente no. Ci sono fronti in cui il Terzo settore ha svolto funzione di apripista, segnando la strada precedendo e incoraggiando risposte pubbliche più robuste.L’attenzione allo spazio pubblico è cresciuta gradualmente, soprattutto nelle periferie dove era decisamente marginale, anche ad opera di attori del Terzo settore, facendo crescere la consapevolezza che le città hanno bisogno di grandi interventi e di progetti vistosi, ma anche di interventi discreti, tra le case, che portano qualità diffusa e percepibile nell’esperienza quotidiana. Siamo reduci da anni di grandi eventi, di grandi progetti, del ritorno dei grattacieli, dei grandi contenitori di funzioni. Maestosi, premiati, straordinari. Forse è tempo di prendersi cura dello spazio urbano minuto, al di fuori delle aree centrali o dello svago (la nuova Darsena ad esempio), di restituire dignità alle piccole opere, alla qualità diffusa, ad una bellezza alla portata di tutti come l’apprezziamo ormai in tutte le città europee, dalla calda Barcellona, alla fredda Amsterdam. Se la qualità dell’innovazione sociale nasce sempre dalla biodiversità culturale, a Milano essa assume tante forme. Ci sono più di 250 nazionalità e i cittadini di origini straniera sono circa il 24% dei residenti. Si parlano tutti gli idiomi, le lingue e i dialetti. Nelle scuole sono 34.000 i bambini figli di stranieri che hanno meno di dieci anni e in ogni classe ci sono alunni nati da famiglie immigrate. Sono proprio le scuole il primo luogo di prossimità e di integrazione che consente a ragazzini che vengono da contesti differenti, di condividere la stessa densa esperienza culturale.Il sistema scuola è però da troppi anni sotto sforzo. Se la società può considerare la presenza straniera come una massa unica e informe, la scuola si trova a gestire la presenza di identità singole, bambini e ragazzi con un nome e un cognome, con origini culturali e religiose differenziate.L’iniziativa di un bravo insegnante, la capacità organizzativa di un dirigente, l’esistenza di un buon team di colleghi, persino la presenza di un gruppo di genitori vivaci ha generato quasi ovunque condizioni favorevoli per il lavoro didattico, e dunque, per un’esperienza educativa ricca e stimolante, fuori e dentro la scuola. Ma il fattore umano è un bene fragile come tutti i beni comuni, soggetto alla fatica del quotidiano come alle profonde difficoltà che gravano sulle istituzioni scolastiche, legato ad alterne vicende e vicende personali. Non può bastare. Tre quarti delle donne di questa città sono attive nel lavoro, un dato che solo di un soffio sfiora la metà di quelli che lavorano (48% del totale degli occupati) e quasi la metà delle lavoratrici svolge professioni altamente qualificate: un dato simile a quello delle grandi capitali europee ma con un indice di qualità del lavoro superiore a quello dei paesi nordici. Un dato cruciale per capire il risveglio di Milano attiene proprio al protagonismo femminile in senso assoluto, anche nel Terzo settore, dove le donne sono predominanti già solo dal punto di vista numerico. Le donne lavorano, sì, ma a Milano pagano più che altrove il prezzo della loro carriera, spesso rinunciando ai figli. Anche su questo punto nei prossimi anni si dovrà tornare a pensare seriamente a politiche di sostegno alla maternità e alle famiglie. Tredicimila ragazzi, quasi il 10% degli studenti, vengono a studiare dall’estero, cinquantamila studenti vengono da fuori sede, tanto che si parla di studentification della città, un neologismo che vuol dire cose contraddittorie: molti giovani in città, università ancora attrattive, fatica a trovare casa e a sostenere il costo della vita, prezzi altissimi e alloggi in condizioni non sempre presentabili. L’accesso alla casa per le nuove generazioni, studenti, giovani coppie, famiglie giovani, è il grande omissis delle politiche milanesi. Se continuiamo a fare coincidere questione abitativa con casa-pubblica, con le tradizionali e inutili politiche di controllo degli affitti, non usciremo dallo stallo di un dibattito tra i soliti addetti ai lavori. Abbiamo perso tempo, lasciato correre, ma la mano invisibile non provvede a tutto. Chi sa interpretare le domande di chi non ha (casa, lavoro, certezze, sicurezza, salute, giustizia, reti di sostegno), di chi non è in grado di mobilitare risorse proprie, di chi è rimasto privo di radici? Chi sa dare voce e sostanza alla questione ambientale in maniera incisiva, senza accontentarsi di soluzioni semplici?Ci sono molte questioni sociali - casa, lavoro, ambiente, salute, scuola - in cui la galassia di azioni e buone pratiche, debolmente capaci di connettersi tra loro, ancora faticano a diventare sintesi politiche.Quello spirito ecumenico che oggi connota il Terzo settore, fatto di gerghi e linguaggi comuni, di piattaforme digitali, di festival e convention, ha tolto un po’ di dialettica e conflitto al dibattito pubblico, rare sono le occasioni di advocacy, ci si affeziona in fretta a ricette e parole d’ordine suggestive. Che quel diffuso entusiasmo che prende noi milanesi quando pensiamo alla nostra Milano europea, non ci distragga dal vedere le lunghe fila per il pane e di sentire la vuota solitudine dei vecchi e di cercare sempre quella felicità pubblica che ogni comunità cerca.

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