Milano | Cascina Merlata
Parco vista grattacielo
Perchè non possiamo più chiamarla rigenerazione urbana
di Elena Granata
L’imprenditore mi guarda dritto negli occhi, come dovesse rivelare un segreto inconfessabile. “Ma lei lo sa che vendo più facilmente un appartamento al venticinquesimo piano, anche nel deserto, che uno al secondo piano, finiture lusso, in mezzo centro?” Non mi stupisce. Che gli attici e i piani alti piacciano e che si vendano facilmente non mi pare difficile da capire; tutta le retorica immobiliare da anni promuove l’immaginario del grattacielo a portata di tutti, anche in un contesto urbano come quello milanese che fino a ieri poteva contare solo su due esemplari iconici, la Torre Velasca e il Bosco Verticale.Il mercato edilizio ha alimentato questa spinta in altezza perché da tempo ha capito che fare i conti con indici, volumetrie e densità conviene più che perdere tempo con teorie urbanistiche e ricette d’architettura, liquidate come smancerie romantiche del secolo scorso. Fatico invece a rassegnarmi che una città come Milano – ma la situazione si sta replicando anche in molte città di provincia – abbia ridotto il termine rigenerazione a sinonimo più elegante di speculazione edilizia.È il segno di una povertà culturale su cui è utile soffermarci.Che io ricordi non c’è mai stata una comunanza di termini e di temi tanto stretta tra chi costruisce e specula da una parte, e chi dissente e critica dall’altra: si usano le stesse parole alludendo a concetti profondamente differenti. Anche l’ultimo dei costruttori ha compreso che la parola magica che apre tutte le porte è rigenerazione; basta-consumare-suolo, la-terra-non-si-tocca, dobbiamo-essere-sostenibili sono gli slogan più frequenti. I più accorti parlano anche di comunità, di consumo-zero, di rigenerazione di contesti degradati, di nuove forme dell’abitare, e persino di permeabilità dei suoli. Qualcuno parla addirittura di rigenerazione sociale riempiendosi la bocca di una parola che manco conosce, sociale. Ma che la qualità urbana stia peggiorando è un dato che non può sfuggire più a nessuno.
Park Towers davanti a Parco Lambro
Basta consumare suolo: è tempo di consumare volume
Solo vent’anni fa bisognava essere dei coraggiosi pionieri della salvaguardia del territorio per occuparsi di consumo di suolo, in pochi denunciavamo il modo in cui certa edilizia selvaggia cresceva in estensione mangiandosi il territorio, soprattutto dei piccoli comuni. Non era facile spiegare allora il meccanismo perverso di generazione degli oneri di urbanizzazione, un baratto tra edilizia e monetizzazione per le casse comunali che ha tenuto in piedi le amministrazioni, consentendo capacità di spesa ed erogazione dei servizi ai cittadini.Oggi, almeno a parole (meglio precisarlo) il no-consumo-di-suolo pare un dato acquisito, una dissipazione di risorse naturali e agricole da combattere con ogni sforzo. Se non possiamo consumare nuove risorse, dobbiamo valorizzare quelle che già abbiamo: quando possibile recuperare edifici esistenti, demolire e ricostruire, così da valorizzare contesti abbandonati. Le parole d’ordine sono rigenerazione del patrimonio esistente e tutti gli sforzi legislativi delle regioni italiane spingono gli attori economici in questa direzione. Per esempio, la legge regionale lombarda (n.18 del 26 novembre 2019) individua tre misure per incentivare la rigenerazione: l’abbattimento del 60% degli oneri di urbanizzazione per gli interventi di ristrutturazione edilizia nonché di demolizione e ricostruzione, anche con diversa sagoma; incremento fino al 20% dell’indice di edificabilità; una maggiorazione tra il 20% e il 50% del contributo sul costo di costruzione per interventi che consumano suolo agricolo.Rigenerare un contesto abbandonato viene ritenuto un valore collettivo così importante che si rinuncia persino ad una quota consistente di oneri e si regala al costruttore più libertà e margine di guadagno.Ma il Paese delle infinite regole e leggi è incapace di gestire con buon senso le libertà ritrovate e gli incentivi. Spesso, come ha scritto qualche anno fa l’urbanista Christian Novak la rigenerazione è “interpretata dagli operatori privati, proprio per i tanti volumi previsti, come la sostituzione di luoghi produttivi ormai dismessi con edifici abitativi. C’è un’enorme libertà, sia in termini di volumi che di funzioni, che ha portato le grandi società immobiliari ad un modello urbanistico molto semplificato” (“Milano e l’ideologia delle torri”, in Vita, 3 settembre 2021, https://www.vita.it/milano-e-lideologia-delle-torri/ ).La formula adottata è la medesima ovunque: la demolizione di un piccolo fabbricato industriale in una zona un tempo mista industriale consente di costruire qualsiasi altro edificio, sia in termini di forme che di funzioni, senza alcuna prescrizione di ricucitura del nuovo intervento con il contesto, senza imporre alcun mix funzionale, senza indicare altezze, coerenze, carichi ambientali da rispettare.E in assenza di indicazioni e limiti il mercato fa quello che meglio sa fare: massimizzare il vantaggio economico e ridurre i margini di rischio. Buongiorno torre urbana!
SeiMilano
L’urbanistica è morta, e anche l’architettura non sta molto bene
È sempre il nostro imprenditore zelante a spiegarmi che investire su appartamenti – e solo su quelli – è l’unica cosa che lo faccia dormire di notte: niente spazi commerciali (rischiosi poi da vendere), nessun mix di destinazioni d’uso (per evitare che arrivi un’attività indesiderata), l’attacco a terra – così si chiama in gergo la base della torre con le sue funzioni urbane – ridotto al minimo, meno spazio possibile a terra e più spazio possibile in altezza, un verde di circostanza ridotto ad aiuole ben disegnate, perché la manutenzione poi chi la fa? E naturalmente box auto in abbondanza attraverso i quali raggiungere direttamente gli appartamenti. La torre non contempla alcuna biodiversità funzionale. In poche battute, rozze ma efficaci, l’imprenditore tratteggia quella che oggi è la più comune ambizione di chi investe nell’edilizia: costruire e vendere appartamenti. Basta fare un giro a Cascina Merlata, come ci ha proposto di fare Alessandro Coppola in un suo pezzo magistrale, per avere contezza di cosa produca in termini urbani questa idea di mercato.È difficilissimo raggiungere il quartiere, districandosi in quel dedalo di svincoli e strade-senza-uscita che è la Milano ex-Expo; è difficile riconoscere qualche traccia di città europea in quella selva di grattacieli, firmati da nomi anche conosciuti, vista autostrada; è difficile fare una ricerca su Google su quest’area e trovare articoli che non siano firmati da promoter e amministratori delegati dell’infinita galassia di aziende che li hanno costruiti, dal calcestruzzo dei pilastri alle porte blindate. “Nel caso di Cascina Merlata lo spazio residenziale è completamente alienato dallo spazio del commercio che a sua volta è sostanzialmente l’unica funzione urbana presente. Edifici residenziali raccolti in isolati separati dallo spazio pubblico attraverso barriere, rigorosa partizione degli isolati per gruppo sociale, nessuna attività al piano terra (tranne alcuni, pochi locali ora occupati da uffici vendite degli alloggi e sperabilmente, in futuro, negozi o attività)”, scrive Coppola.L’unico negozio su strada è quello di raccolta dei pacchi ordinati su Amazon, metafora potente del nostro tempo.La città novecentesca qui è solo un lontano ricordo: non ci sono scuole, presidi medici, chiese, parchi pubblici accessibili a tutti, biblioteche, piazze alberate con le panchine, negozi aperti fino a tardi, bar dove prendere un caffè dopo aver portato i figli a scuola, aree-gioco ombrose per i bambini. L’immenso e monumentale centro commerciale con i suoi 50 ristoranti chiude la bocca a noi nostalgici della città pubblica, della città delle piazze e dei giardini, della città dove cammini per le strade e qualcosa ti predice cosa farai da grande (come diceva il saggio Louis Kahn).Il parco di pertinenza delle torri, le strade assolate, il centro commerciale, i box dai quali si sale direttamente negli appartamenti riducendo al minimo gli incontri con i vicini, scrivono un’altra grammatica urbana. L’antica cascina secentesca che dà il nome al quartiere, completamente ammodernata, rimane lì a testimoniare – e forse manco più quello – che c’è stato un altro tempo e un’altra vita e forse un altro modo di intendere l’architettura.Ma cosa spinge le persone a desiderare di andare a vivere lì? Cosa vale la vista di un centro commerciale di dubbia qualità architettonica e della grande autostrada per Torino? Quando abbiamo iniziato ad amare i grattacieli a costo di rinunciare ai confort della città dei quartieri, dei negozi, delle relazioni faccia a faccia? Patricia Viel, co-founder dello studio ACPV e co-autrice del master plan qualche anno fa ci ha spiegato la sua idea di quartiere e il senso del lavoro di tanti architetti: “nel rispetto del masterplan composto da edifici in linea come bordatura delle strade ed edifici a torre di altezza variabile, dai 10 al 30 piani, tutti i progettisti che partecipano al progetto di Cascina Merlata stanno lavorando con una grande attenzione nell’attribuire riconoscibilità e identità ai singoli manufatti sul piano linguistico e dei dettagli” (“Architettura e sostenibilità: Patricia Viel su Cascina Merlata”, in Interni, 25 giugno 2021; internimagazine.it). Ma i singoli manufatti, ancorché riconoscibili l’uno dall’altro, non fanno la città. Fanno un catalogo di manufatti singoli, di giganteschi oggetti di design e non paesaggi. Ma forse era quello che si desiderava. E a sorprendere non è più l’architettura che costruisce paesaggi ma la bigness, quella di cui parla con entusiasmo Rem Koolhaas, amore per la dismisura in spregio ad ogni contesto.In nessun laboratorio di urbanistica, osserva Coppola, “si permetterebbe a degli studenti di produrre un masterplan così (e per tante ragioni). Quindi non si sa bene a cosa serva in effetti la formazione di architetti e urbanisti, forse ad essere critici di ciò che ci si ritrova a fare, più che ad essere critici nel fare le cose diversamente” (arcipelagomilano.org).Amaramente, concordo.
Milano | Cascina Merlata
Torri anche tra le case: la parola d’ordine è densificare
Infine le torri, ancora le torri, sono al centro della più recente cronaca urbanistica e giudiziaria milanese. Da qualche mese a Milano si è accesa l’attenzione della Procura, con l’avvio di una serie di puntuali indagini. Prima la “palazzina” di piazza Aspromonte, poi Torre Milano, grattacielo nel quartiere Maggiolina, poi le Park Towers, in zona piazzale Udine, con vista sul Parco Lambro, fino ad arrivare a circa 150 edifici, messi sotto osservazione per irregolarità.La questione è aperta: sul banco degli imputati l’ambiguità delle norme. Ci troviamo di fronte a casi di ristrutturazione o di nuova costruzione? Se gli indici di edificabilità superano quelli previsti dal Piano di Governo del Territorio può bastare una SCIA (Segnalazione Certificata Inizio Attività) o servirebbe un permesso di costruire e poi un piano particolareggiato o simile? Se si tratta di nuova costruzione il calcolo degli oneri non dovrebbe essere ben più alto e ci troviamo di fronte ad un danno erariale?L’accusa è di aver autorizzato e realizzato nuove costruzioni con procedure (più rapide) e oneri (bassi o zero) previsti come abbiamo visto sopra per la ristrutturazione di interni.Qualche giornalista, come Gianni Barbacetto, dice che siamo di fronte ad un nuovo Rito Ambrosiano, “un metodo di lavoro efficiente e consolidato. È un automatismo che facilita le edificazioni, nelle grandi operazioni immobiliari, ma anche negli interventi piccoli e medi. Coinvolge la macchina burocratica del Comune, in special modo quella dell’assessorato all’Urbanistica, ribattezzato con sublime eufemismo “alla Rigenerazione urbana” (giannibarbacetto.it). Certamente entro questo sistema, nato per velocizzare gli interventi edilizi e far ripartire Milano dopo il Covid, si sono trovati d’accordo tutti, costruttori, sviluppatori, proprietari di aree e di immobili, mediatori, architetti e commissioni paesaggistiche varie.Ma prescindiamo dal dato meramente giudiziario della questione. Sarà la procura a chiudere le indagini, il Comune ad approntare la difesa, il Ministro Salvini a trovare una soluzione tecnica per evitare la demolizione delle torri e il danno a cittadini (e costruttori), ma la questione culturale rimane aperta. Il tessuto urbano consolidato, per sua natura misto, è fatto di negozi, cortili, piccole fabbriche incapsulate tra le case (quelle che in altri tempi avremmo trasformato in loft) che acquistano valore commerciale soprattutto se demolite-ricostruite, massimizzando le volumetrie. Investire in questo tipo di aree è estremamente vantaggioso.Ma quale vantaggio ricava la collettività da questi interventi? Poco o nulla. Chi valuta che il carico urbanistico, ambientale, di servizi sia sostenibile, se si procede con tali automatismi? Nessuno. Chi stabilisce che l’arrivo di nuove famiglie sia sostenibile per la comunità, che bastino i servizi presenti in zona, che non si generi più traffico o compressione degli spazi aperti così necessari per fronteggiare isole di calore e crisi climatica? Nessuno. Chi gestisce l’impatto di valorizzazione generato dall’arrivo di torri di lusso in contesti misti, su tutti l’innalzamento dei prezzi delle case? Nessuno.Ecco perché i cittadini insorgono, denunciano, si riuniscono in comitati, lamentano l’aumento di piccoli e grandi cantieri.Naturalmente c’è sempre da considerare l’interesse di chi costruisce e di chi compra. E, cosa non marginale, quello di molti studi di architettura. Prendiamo la comunicazione di Park Towers, che si affacciano sul Parco Lambro, oggi sotto inchiesta e in fase di ultimazione. “Vivere a Park Towers vuol dire godere di un’esposizione unica e di una vista suggestiva”. I pochi fortunati che acquisteranno i piani alti delle torri avranno certamente davanti a sé una vista suggestiva, a ridosso del verde.Il bene pubblico parco diventa il principale fattore di valorizzazione economica. Peccato che tutti gli altri cittadini che frequentano il parco, vadano lì per lo stesso identico motivo: poter godere di “un’esposizione unica e di una vista suggestiva” di alberi, di sentieri, di prati. Suggestione che non contemplerebbe – mentre corriamo o portiamo a spasso il cane o i figli piccoli – la sagoma del grattacielo! Si va al parco proprio per dimenticare la città e le sue altezze e poterci immergere nella natura. L’urbanistica serve esattamente a consentire al maggior numero di persone di godere di un bene pubblico e non per favorire quel godimento da parte di pochi. Il suo compito sarebbe proprio quello di evitare, quando possibile, il parco-vista-grattacielo. Purtroppo, oggi una singolare accezione di tecnica urbanistica pensa di dover favorire sempre l’interesse privato e pensa, talvolta anche in buona fede, che lo sviluppo edilizio sia comunque cosa buona e giusta, che favorendo gli interessi immobiliari la città diventerà più ricca e attrattiva. Purtroppo, a questo punto, per rendere più accessibile e democratica la città ci vorrebbe la Mano di Dio!Talvolta l’urbanistica, gomitolo di leggi e di decreti, non ha gli strumenti per indicare alternative, prigioniera dell’idea che sia sempre meglio riqualificare piuttosto che lasciare in abbandono. In questo modo rischia di dimenticare il proprio ruolo civile, di difesa dei beni comuni, della qualità di vita delle persone, del valore dei vuoti e degli spazi naturali così importanti in tempi di crisi climatica. Si può pensare che l’ordine casuale dei singoli tasselli produca un disegno e una visione per il futuro? Non penso proprio. Dall’equilibro tra interesse privato e bene pubblico sono nate le più belle città del mondo, dal tradimento di questo equilibrio mi aspetto solo tanta diffusa mediocrità. Forse è tempo di un colpo di reni, nel mondo dell’architettura.
Milano | Cascina Merlata