Il gallo ha cantato.Pensare il territorio fuori dalle trappole dei beni assoluti

Per tre volte, lungo la storia di questi decenni, abbiamo voltato le spalle ai luoghi. 

Quando negli anni Cinquanta ci siamo lasciati alle spalle il mondo contadino, la nostra agricoltura, la cura del paesaggio e di quell’Italia minore che pure aveva fatto la grandezza del nostro Paese. In quella metamorfosi descritta da Pierpaolo Pasolini, abbiamo voltato le spalle ad un modo di essere, ad uno stile di vita, povero ma legato alla cura della natura, da cui ci siamo definitivamente distaccati

Abbiamo ancora pensato di fare a meno del territorio, quando abbiamo iniziato a abbandonare i presidi industriali del sistema produttivo, per portare le fabbriche altrove, al di fuori della rete, delle comunità che pure le avevano fatte nascere. 

Abbiamo lasciato – senza che si alzasse alcuna voce – che di disperdesse l’immenso valore dei distretti industriali, quel mix straordinario di sapere e saper fare, di territorio e di comunità, di competenze tacite, di famiglia e fabbrica che aveva consentito benessere e sviluppo diffuso in gran parte del territorio.

Abbiamo voltato le spalle al territorio, riducendolo a piattaforma economica su cui giocarsi le scelte logistiche e strategiche, nella stagione dell’economia dell’immateriale, dei flussi, delle relazioni virtuali. C’è stato persino un periodo in cui la letteratura sociologica, economica e urbanistica, vagheggiavano un mondo senza luoghi, perfettamente connesso, dove abitare e lavorare in modo del tutto sradicato e fluido.

Abbiamo, infine, voltato le spalle alla terra, tutte le volte che, pur consapevoli della ricchezza del nostro paese, dei suoi beni culturali, della cultura, dei paesaggi, del cibo, della creatività e dell’arte che sono stati la nostra grande storia, abbiamo consentito che venisse dissipata e distrutta da leggi sbagliate, dalla cultura dell’abuso, dalla legittimazione del consumo di suolo su larga scala. 

All’immaginario potente della Bella Italia, che ci rende famosi nel mondo, preferiamo la messe in scena di quell’Italietta delle cronache che ogni giorno ci mostra il suo lato peggiore.

Un mix di mancanza di cultura civile, disattenzione diffusa, corsa al profitto e all’urbanizzazione del territorio secondo un modello dissipativo e rapace, che ci ha portati a consumare più suolo agricolo e quindi paesaggio, natura, cultura, beni comuni, negli ultimi quindici anni che in tutta la storia repubblicana. Con una responsabilità molto forte dei piccoli e piccolissimi comuni, quelli più esposti agli effetti collaterali dell’uso distorto degli oneri di urbanizzazione, alla mancanza cronica di fondi dalla incapacità amministrativa. 

Neppure nel boom economico delle seconde case, delle grandi fabbriche, delle periferie abbiamo sacrificato tanto suolo fertile. Un dato che dovrebbe continuare ad allarmarci e imporci un coraggioso cambio di rotta.

 

Tre volte abbiamo voltato le spalle ai luoghi.

Poi il gallo ha cantato.

Oggi non possiamo più fare finta di nulla e molto sta cambiando.

 

L’economia civile certamente rivela una attenzione crescente a questo tema, con il suo richiamo alla vita delle persone e delle comunità, con l’attenzione ai beni relazionali e ai beni comuni. Cominciamo a capire che non ci può essere economia senza luoghi e senza comunità di persone che collaborano intorno a imprese comuni. Cominciamo a capire che l’economia è cosa troppo importante per essere lasciata ai soli economisti e chiama in causa tutti.

Chi sono i protagonisti e i pionieri di questo ritorno ai luoghi? Se li guardiamo da vicino possiamo cogliere uno spaccato generazionale. Sono la generazione dei 30-45 anni, si potrebbero definire gli Ulisse che tornano a casa, hanno studiato, hanno fatto master, sono stati all’estero, spesso hanno più di una laurea. Gli sono state chiuse molte porte, le porte delle professioni tradizionali, delle carriere universitarie. Dopo un viaggio che è durato anni, uno zigzagare attraverso città e università, incontri felici e disillusioni, hanno deciso porre fine al viaggio e di fare ritorno a casa, inventandosi un nuovo lavoro. 

Sono la generazione di mezzo, arrivati alla vita adulta in piena crisi economica e avvezzi alla transitoria mutevolezza e all’incertezza del tutto-cambia. 

Storie che raccontano quel momento in cui Ulisse riprende la rotta del suo viaggio e decide di attraccare, stanco di giorni e di mare, con una nuova determinazione. Spesso è un ritorno al sud, alla terra in cui si è nati. Non ci si nasconde la difficoltà di tornare nei luoghi di partenza ma li si guarda da altre prospettive.

Si cominciano a delineare in alcuni contesti i contorni di possibili distretti dell’economia civile, in altri sono motore le cooperative di comunità, in altri filiere di nuove imprese; ovviamente siamo all’inizio, dovremo capire come evolveranno, ma qualche elemento mi pare già evidente. 

Se nei distretti tradizionali l’accento era posto sulla monocoltura e sugli elementi di somiglianza sociale economica culturale. Queste comunità in nuce hanno degli elementi di comunanza: partono dalla vita e dalle esperienze sul campo, da occasioni concrete; si orientano verso la produzione di beni e servizi che sono cruciali per la comunità; non configurano comunità di destino, ma di comunità che si generano proprio intorno a nuove occasioni di lavoro.

Hanno un alto tasso di biodiversità, nel senso che provengono da esperienze varie, mescolano competenze diverse che vanno da quelle più tecniche a quelle più sociali, dalle risorse culturali a quelle artistiche, con esiti progettuali e imprenditoriali sempre differenti. 

Alla base di queste esperienze, che mettono in atto una rinnovata presa in carico della comunità e del territorio, vi è la consapevolezza che avviare circoli virtuosi di economia, puntare su un’amministrazione creativa e generativa, proporre percorsi di accoglienza o di economia circolare, prendersi cura di manufatti o luoghi abbandonati sono l’unico modo per continuare a vivere in quei territori.  Non ci sono alternative (men che meno per i giovani).

L’elemento di ricucitura, di mitigazione delle ferite sociali del passato è fortissimo.

Queste storie, almeno nella gran parte dei casi, si smarcano dalla trappola dei beni assoluti, delle dichiarazioni retoriche. Quelle di cui la politica fa e ha fatto ampio uso. Dalla tentazione di compiacersi di enunciati categorici, di slogan senza realismo, di ricette certe. 

Pensiamo all’annuncio di ricostruire tutti i paesi colpiti dal terremoto ripristinandoli “com’erano e dov’erano”, alla filosofia del consumare solo prodotti a Km zero, alla retorica del consumo di suolo zero, alla riduzione a zero dei rifiuti. Persino al virtuoso “salvare tutti i piccoli borghi abbandonati d’Italia”, del più virtuoso ambientalismo. L’enunciazione del principio non ci salva. 

Indicare un valore senza cimentarsi con la fatica e la contraddizione. Uscire dalla trappola dei beni assoluti significa accettare di misurarsi con il campo del possibile e con beni relativi. 

Questo richiede discernimento sul “dove e come intervenire”, richiede di “fare i conti con la morte dei luoghi”, talvolta, richiede di imparare facendo. Richiede di fare i conti con le fragilità del nostro territorio. Per domandarsi: Come alimentare le strategie delle singole iniziative? Come creare opportunità di contesto per attirare lavoro, imprese, innovazione?

 

Dall’intervento al Festival Nazionale Economia Civile, Firenze 31 marzo 2019

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