Ogni città è attraversata da trasformazioni continue, così impercettibili che fatichiamo a vederle. Si tratta di evoluzioni lente di cui ci accorgiamo solo tardivamente e con sorpresa quando la trasformazione è ormai avvenuta. Poi ci sono gli eventi imprevisti e radicali, quelli che non avevamo contemplato e che imprimono un segno più forte di cambiamento: una crisi economica o politica, una guerra, oppure – come abbiamo vissuto in questi anni – una pandemia.
Ancora fatichiamo a capire se le trasformazioni che ha innescato la pandemia, i profondi cambiamenti nel nostro modo di vivere, di lavorare, di spostarci, di abitare appartengono alle grandi rivoluzioni che sanciscono un prima e un dopo, oppure se ci troviamo nel mezzo di una transizione silenziosa iniziata già prima e che con la pandemia ha subito solo una profonda accelerazione.
Prossimità e abitabilità degli spazi urbani
La crisi climatica sta spingendo molte città a cambiare e a investire con più decisione sulla qualità della vita e degli spazi urbani, ampliando le aree naturali e verdi, impiegando nuove fonti di energia. Chi resta a vivere nelle città esprime con più decisione una domanda di spazi aperti e pubblici, di parchi, di natura; vuole muoversi in modo diverso e trovare servizi in prossimità di casa. Pensiamo al successo della metafora della “città del quarto d’ora” dell’urbanista franco-colombiano Carlos Moreno, metafora al contempo ecologica, legata ai tempi di vita, con forti suggestioni comunitarie. Adottata dalla sindaca di Parigi, Anne Hidalgo, è stata poi adottata da sindaci in ogni parte del mondo: è una metafora che riporta la metropoli alla sua dimensione primigenia di villaggio, di comunità solidale; nel raggio di un quarto d’ora ogni cittadino deve poter raggiungere le scuole, i negozi, i servizi di base e tutto quello che renda confortevole l’abitare urbano, lasciando il più possibile a casa l’auto.
Prossimità e abitabilità degli spazi pubblici sono tornate nel dibattito intorno al futuro delle città, rimettendo al centro le strade, le piazze tra le case, la qualità minuta dei marciapiedi, la presenza di sedute che consentano alle persone non solo di camminare, ma anche di riposare, i parchi e i giardini, gli spazi per i bambini e per gli animali, le piste ciclabili, le isole pedonali, le strade solo pedonabili.
È dalla qualità di quello spazio intermedio e di prossimità che dipende il benessere e la salute delle persone. Trascorrere più tempo possibile fuori dalle abitazioni, anche d’inverno, anche nei paesi freddi, è di vitale importanza per la salute e per le relazioni umane.
Non è abitabile una città dove predominano le automobili sullo spazio di pedoni e ciclisti, dove siamo soffocati dall’inquinamento dovuto al traffico e al consumo di suolo, dove i tempi di vita sono organizzati intorno a picchi orari incompatibili con la varietà degli stili di vita (ma ancora troppo limitato ed estemporaneo è stato l’intervento sui tempi della città, sulla mobilità dolce, sulla qualità dell’aria).
Città e generazione di beni comuni
I cambiamenti climatici, ma anche la crisi pandemica e persino la crisi geopolitica (che ci richiama a riflettere sulla questione dell’autonomia alimentare ed energetica) rimettono nuovamente al centro le città e la loro capacità di generare e rigenerare beni pubblici (per esempio la sanità, la scuola, la mobilità) e beni comuni, in forme nuove. Le città sono, infatti, al contempo le prime responsabili e le prime vittime dei cambiamenti climatici. È qui che ci misuriamo con la disfatta, con gli errori del passato, con edifici e comportamenti dissipativi di risorse, o possiamo agire una discontinuità profonda con il passato, trasformandole in laboratori di cambiamento effettivo. È nelle grandi città, proprio per la particolare concentrazione di capitali, capacità, tecnologie e istituzioni, che si possono intercettare le risorse per le soluzioni più innovative in risposta a tali fenomeni. Saranno le città, con le loro eccedenze, con la loro varietà di persone, con le loro diseguaglianze e contraddizioni, con le loro lingue molteplici, con le culture che si mescolano e confliggono, con la loro naturale biodiversità, a trovare la strada per la sopravvivenza del pianeta.
Da una visione (solo) eco-nomica a una eco-logica
Ai decisori politici, alla società civile, alle imprese oggi è richiesto di passare da una visione del mondo (solo) eco-nomica a una visione eco-logica, capace cioè di tenere insieme in modo nuovo le complesse dimensioni della vita quotidiana, con particolare attenzione ai beni comuni dal cui destino dipendiamo tutti (l’acqua, il suolo, l’aria, la luce e il cielo, ma anche l’educazione, l’accesso al web, le competenze digitali, i servizi al cittadino).
Una politica della transizione ecologica non può che lavorare sulle ridondanze, sulle eccedenze e sulle capacità di amplificazione che ogni singolo intervento suscita quando si integra con altri interventi: proteggere i suoli e investire sulla rigenerazione urbana, aumentare le isole pedonali e le zone a traffico limitato e intervenire sulla riforestazione urbana, intervenire sul sistema della mobilità e integrare nuove energie sostenibili, riorganizzare il ciclo dei rifiuti e facilitare gli interventi sul patrimonio edilizio, ripensare i tempi delle città e costruire piste ciclabili. La transizione sta in tutte quelle e, congiunzioni che ci costringono a ripensare ai sistemi nel loro insieme, a utilizzare la nostra intelligenza connettiva senza proporre inutili interventi di tamponamento.
La salute del pianeta, delle persone, degli animali
La pandemia ha inoltre rivelato la fragilità delle nostre capacità di risposta sanitaria collettiva, l’inadeguatezza delle strutture ospedaliere nel rispondere efficacemente alla diffusione del virus, la variabilità delle risposte territoriali. Un’esperienza che dovrebbe indurci a ripensare l’architettura degli ospedali e delle case di riposo e a pianificare seriamente una sanità diffusa sul territorio, facendo convergere competenze multidisciplinari: dall’ingegneria, alla psicologia ambientale, dal design all’economia comportamentale; perché, alla qualità delle cure, vanno aggiunti anche aspetti di natura non strettamente terapeutica, ma cruciali per il benessere delle comunità, come l’integrazione dell’ospedale con il resto del contesto urbano, l’apertura alla natura, qualità delle tecnologie, l’umanizzazione delle pratiche e della relazione medico-paziente.
Ripensare gli spazi ospedalieri non può però bastare. Oggi è necessario ripensare la salute in chiave ecosistemica, come un continuum di politiche, di azioni, luoghi che mettono al centro il benessere fisico e psichico delle persone. Se la salute ha a che fare con il corpo nella sua multidimensionalità ed è quindi connessa con l’ambiente, la qualità dell’aria, il benessere sul lavoro, la qualità delle relazioni umane, può ancora essere solo limitata a un luogo che cura la malattia al suo manifestarsi?
Abbiamo privilegiato un approccio funzionalista a uno relazionale. Abbiamo ridotto la natura a una piattaforma di attività e il paesaggio alla sola estetica, a quella bellezza da ammirare aprendo le finestre di casa, dimenticando che ha anche una dimensione etica legata al nostro benessere, alla produzione del cibo e del vino, all’agricoltura, alla tutela del suolo.
Abbiamo tolto la sfera affettiva ed esperienziale dalla scuola, riducendola a un format di trasmissione e di apprendimento per moduli rigidi. Ma, come la pedagogia ci ha da decenni insegnato, nessuno studente impara se lo si priva di quella dimensione che tocca le corde del cuore prima di quelle cognitive. Abbiamo separato la cura del corpo da quella dell’anima, siamo diventati bravissimi a sanare le nostre ferite, senza capire che la persona è una e che la sofferenza non è sempre legata al corpo e alla malattia. Oggi ci misuriamo con una profonda domanda di ricomposizione tra corpo e mente, ma anche tra salute del pianeta, salute delle persone e degli animali, come l’approccio olistico One Health una sola è la salute (del pianeta, delle persone, degli animali) finalmente suggerisce ai decisori politici e agli analisti.
Dalle città intelligenti alle città della cura
Cambiano le urgenze, cambiano le parole: da smart city, modello urbano che all’inizio degli anni Duemila aveva messo al centro le nuove tecnologie (Ratti, 2017) e i grandi brand del digitale come attori del cambiamento, a care city, città della cura, con una sottolineatura forte sulla protezione sociale, la salute collettiva, l’inclusione, i diritti, l’equità e una relazione più mite e attenta alla natura.
Care city, città della prossimità, della sostenibilità, del benessere delle persone, fa propria un’idea di vita associata che riparte dai luoghi fisici. È nei luoghi che abbiamo ritrovato il senso della prossimità durante la pandemia; è nei luoghi che dobbiamo trovare soluzioni alla sfida energetica, attivando comunità energetiche capaci di costruire nuove reti intorno alla produzione e alla condivisione dell’energia; è nei luoghi che torna centrale la produzione alimentare, che significa anche cura della terra e del paesaggio; è nei luoghi che ci misuriamo con la sfida climatica, promuovendo azioni concrete di rinaturalizzazione, di mitigazione ambientale, di contenimento degli effetti di siccità e inondazioni o di contrasto alla siccità e alla mancanza d’acqua. È nei luoghi che dovremo ricostruire le condizioni della partecipazione popolare e del confronto, elemento di salute del corpo sociale.
Per una nuova narrazione urbana
Da questa prospettiva nasce questo Focus di Nuova Umanità dedicato alle città, proponendo il contributo di studiosi che si dedicano in forme e modi diversi allo studio della città contemporanea e che da anni dialogano, si confrontano, producono pensiero condiviso intorno alle grandi sfide urbane del nostro tempo.
Il lettore si troverà davanti alcuni saggi scritti in stile narrativo, dove, accanto alla teoria e all’analisi delle città contemporanee, pure presente in filigrana, e accanto al riferimento alla letteratura internazionale sul tema, potrà leggere soprattutto storie di persone e di luoghi, storie di intuizioni e di progetti, storie di proteste e resistenze che hanno come sfondo quartieri di città sparsi per il mondo. Ci è sembrato da tempo l’unico modo possibile per maneggiare una materia troppo spesso astratta, lontana dall’esperienza delle persone, ridotta a codici, regolamenti, teorie. La nuda vita, quella che riguarda tutti noi diversamente abitanti sul pianeta, ci chiede oggi di essere raccontata in modo più prossimo e fraterno, facendo ricorso a quell’empatia che ci consente di viaggiare per il mondo in modo più diretto.
I saggi condividono un filo conduttore. Le città non hanno bisogno solo di competenze tecniche protese a costruire, pianificare, progettare il nuovo – competenza che fino ad ora abbiamo delegato a ingegneri e architetti e, ancor più spesso, alle messianiche figure delle archistars –, servono attori capaci di lavorare sul senso, sui tempi di vita, sull’organizzazione di una mobilità più efficiente ma anche più sostenibile, sull’integrazione delle attività umane con quelle della natura.
Per questo motivo gli inventori delle città del nostro futuro non saranno più gli architetti in senso tradizionale. Ormai da tempo l’architettura ha perso il proprio ruolo di pungolo intelligente della società, la sua capacità di trasformazione reale dei luoghi e delle città, la sua capacità di generare visioni di lungo periodo.
Abbiamo bisogno di figure nuove, ibride, plasmatori di spazi e inventori di nuovi luoghi di vita, li ho chiamati placemakers, inventori dei luoghi che abiteremo (Granata, 2021).
Il placemaker non costruisce, ma ri-connette, re-inventa, ri-genera. Non deve aggiungere, semmai deve togliere. Il suo compito è quello di ridare senso a quei luoghi che lo hanno perso: dalle periferie cittadine alle aree dell’hinterland, dove i campi sono stati abbandonati perché coltivarli non conviene più, fino ai borghi delle aree interne non più abitati. Reintegra la natura in contesti urbani, riforesta e ripristina ecosistemi, progetta soluzioni ispirate alla natura per contrastare i cambiamenti climatici, ricuce periferie sconnesse, reinventa borghi abbandonati. Si cimenta con gli scarti delle città, con i muri ciechi e i capannoni inutilizzati, con gli spazi aperti e vuoti. Non agisce solo sugli spazi fisici, ma anche sui comportamenti umani e sulla natura, sui sentimenti e sugli stili di vita. Molti di questi nuovi inventori di luoghi li incontrerete nei saggi che seguono. Buona lettura!
Bibliografia
Granata, Placemaker. Gli inventori dei luoghi che abiteremo, Einaudi, Torino 2021.