Se l’emergenza mette a nudo il territorio che cambia

Se l’emergenza mette a nudo il territorio che cambia

E se avessimo bisogno dell’emergenza per pensare i nostri territori in modo nuovo? Ce lo chiediamo di ritorno da un viaggio nell’Emilia del post-terremoto, a sei anni di distanza dal sisma. La Bassa emiliana non è la stessa del 2012: lo vediamo da come sta andando avanti la ricostruzione e soprattutto ce lo raccontano le voci di alcuni testimoni locali impegnati, a diverso titolo, nella gestione dell’emergenza e del post-terremoto.

La zona colpita dal terremoto è cambiata dopo il sisma, ma il disastro ha soltanto reso più evidenti alcune trasformazioni più profonde che erano già in corso. La Bassa stava già perdendo terreno rispetto ad altre zone limitrofe più attraenti o competitive, come Carpi o Reggio Emilia, in grado di offrire lavoro e buoni collegamenti con il resto del Nord Italia. Le dinamiche economiche e demografiche mostravano quelle differenze che il post-terremoto avrebbe solo accentuato (ad esempio, dopo il sisma la cittadina di Novi di Modena ha perso 1100 abitanti su 6000), lasciando intatte solo piccole isole che funzionavano bene già in precedenza (come Mirandola e il suo settore biomedicale). Alla debolezza economica si è aggiunta una fragilità ambientale, Un esempio è quello della liquefazione delle sabbie trasportate dal fiume Reno che ha colpito alcuni paesi del Ferrarese. Il corso d’acqua è transitato di lì per oltre trecento anni, tra successivi disvelamenti e nuove canalizzazioni, accumulando detriti minuti, che a contatto con l’acqua di falda diventano pericolosissimi. Insomma, abbastanza aspetti critici da mettere in discussione un intero modello di sviluppo locale che aveva retto per tutta la seconda metà del Novecento, ignaro delle grandi trasformazioni del territorio dei secoli precedenti, capace però di garantire benessere alle popolazioni di quei luoghi grazie anche a cooperativismo e welfare.

Il terremoto insomma ha fatto affiorare e accelerare trasformazioni già in corso. Senza che però la classe dirigente locale se ne sia accorta, come dimostra l’inadeguatezza dei modi di affrontare il post-terremoto e, in generale, gestire un territorio cambiato rispetto al secolo scorso. La gestione dell’emergenza è stata frammentata, lasciando in capo ad ogni singolo comune l’interazione con la Regione; come risultato, processi e prodotti della ricostruzione sono stati diversi da comune a comune, in termini di procedure adottate e interventi permessi o meno. La realizzazione di un’unione dei comuni locali avrebbe forse permesso di gestire il post-terremoto con maggiore coerenza e forza negoziale. Inoltre, nessun processo partecipativo è stato pensato per coinvolgere i cittadini tanto nella definizione degli interventi di prima necessità quanto nelle strategie a lungo termine per la ricostruzione dei paesi colpiti dal sisma; la mancanza di coinvolgimento è stata vista, a livello locale, come segnale di una politica distante incapace di riconoscere i molti saperi che anche i cittadini possono apportare, in forme più strutturate che in passato. Sembra quindi che le classi dirigenti locali si siano formate in e per un apparato adatto a gestire un territorio in condizione di benessere, senza riuscire ad avere gli strumenti per guardare la realtà attuale delle proprie zone e pensarne, di conseguenza, nuove forme di sviluppo.

La miopia della classe dirigente locale ha già avuto delle conseguenze.

Da una parte, la gestione dell’onda lunga del terremoto ha dimostrato l’orizzonte limitato nella gestione di situazioni temporanee che però, inevitabilmente, hanno anche conseguenze permanenti. Dall’altra, sta diventando sempre più visibile la reazione dei cittadini alla gestione della crisi e, in generale, a un sistema non più in grado di rispondere ai bisogni di un territorio. Nelle ultime elezioni politiche, i partiti che hanno dominato la zona negli ultimi decenni hanno subito una forte battuta d’arresto, tenendo solo nelle zone urbane e lasciando spazio a forze antisistema nei centri più piccoli. A livello locale sono invece nate diverse liste civiche che sono arrivate a contendere voti anche ai soggetti politici più forti. Un aspetto interessante è che in molti casi il dibattito sul terremoto ha dato soltanto lo spunto iniziale per queste forme di attivismo dal basso, che si sono poi spostate su diversi altri temi di rilevanza locale.

Il territorio cambia in forme inedite, le classi dirigenti non riescono a prenderne atto, mentre i cittadini iniziano a perdere fiducia in un sistema che fino ad ora ha sì funzionato, ma in un contesto profondamente diverso. E le emergenze legate ai disastri naturali accelerano i cambiamenti già in atto. L’emergenza allora può diventare l’occasione per pensare al futuro in modo nuovo? Forse sì, in due modi diversi: si può ripensare il futuro di un territorio quando un’emergenza si è già manifestata; o ancora meglio ci si può preparare all’eventualità di un’emergenza, esercitandosi a leggere il presente e capire a quale futuro si aspira. Immaginiamo il caso di un terremoto: un esercizio strategico sul futuro di un territorio può diventare una preziosa guida nella gestione della ricostruzione. Invece di impegnare ingenti risorse nella semplice ripetizione di un dov’era, com’era che spesso non risponde più alla realtà di un luogo, si possono concentrare gli sforzi su quelle azioni – materiali e non – che una comunità ritiene necessarie per sé. Immaginiamo, per assurdo, che vada distrutta una grande struttura di parcheggio: una comunità che voglia puntare sulla mobilità sostenibile potrebbe deciderla di non spendere finanziamenti e energie per ricostruire qualcosa di non necessario. La stessa progettualità può ovviamente servire ad orientare anche l’azione ordinaria dei soggetti presenti in un dato territorio, dandole un nuovo orizzonte di senso.

Esercizi del genere non sono semplici, certamente: richiedono capacità di sguardo sul presente e visione al futuro, non possono fare a meno del coinvolgimento di attori molteplici, rendono necessario selezionare e, soprattutto, avere il coraggio di cambiare. Ma sono sempre più necessari, per gestire luoghi che, per l’azione dell’uomo e della natura, cambiano e assumono forme sempre nuove.

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