Rabindranath Tagore, poeta bengalese, premio Nobel per la letteratura nel 1913, si prodigò nel corso della vita affinché ci fossero maggiori possibilità di studiare in tutta l’India e la scuola divenisse più vivace e gradevole per tutti. Nel 1901, diede vita al suo grande e duraturo esperimento educativo, a Santiniketan, in un ambiente agreste a un centinaio di chilometri da Calcutta: un’istituzione dove le lezioni si svolgevano all’aperto ed in forma di conversazione, sul modello dell’antica scuola tradizionale indiana. A distanza di molti anni così la ricorda un allievo: la scuola era fuori dell’ordinario sotto molti aspetti, a cominciare dalle lezioni che venivano tenute all’aperto - non era una scuola particolarmente dura, ricorda – ma c’era qualcosa di veramente notevole nella facilità con cui la discussione, durante le lezioni, poteva spostarsi dalla letteratura tradizionale indiana al pensiero occidentale classico o contemporaneo, e di lì alla cultura cinese o giapponese o di altri paesi. Con la sua esaltazione della varietà, la scuola era in netto contrasto con il conservatorismo e il separatismo culturale da cui l’India di tanto in tanto si lascia prendere.Quell’allievo - di nome Amartya Sen - cinquantasette anni dopo la morte di Tagore, sarà insignito del premio Nobel per l’economia (1998), molto lontano da Santiniketan. Come si generano, come si comunicano e diffondono i saperi? Quali relazioni hanno con i luoghi?Da queste domande è nato dieci anni fa il nostro libro a tre teste (Anna Granata, Chiara Granata, Elena Granata, Sapere è un verbo all’infinito, Il Margine, Trento, gennaio 2013).Molti anni sono passati ma sono intatte le urgenze di allora riguardo alla scuola, all’educazione, ai luoghi di vita, alla creatività che va educata e lasciata libera, alla necessità di raccontare storie. Dovremmo ripubblicarlo, perché purtroppo poco è cambiato nella scuola italiana.

Tutte le idee sono sorelle

(tratto dall’introduzione al libro di A. Granata, C. Granata, E. Granata, Sapere è un verbo all’infinito, Il Margine, Trento, 2013)

Immaginate un tavolo pieno di libri aperti, di fotocopie, di appunti, e poi ancora tazze di caffè e bicchieri d’acqua. Immaginate una montagna di libri in disordine e poi moltiplicate per tre e avrete un barlume d’idea del lavorio e del disordine che c’è dietro a questo libro. Sì, perché quando abbiamo cominciato a scriverlo non immaginavamo lungo quali percorsi si sarebbe snodata la nostra ricerca. Il lavoro è nato un po’ di frodo, sottraendo sonno alle notti e pause ai giorni, sfruttando i ritagli di tempo di un lavoro che ci conduceva in luoghi e città diverse, alle esigenze dei figli, a un’attività professionale pressante. Eppure, quel tempo sottratto al dovere e all’impegno e impiegato intorno ad un’impresa comune ci ha regalato una rara occasione di spensieratezza e di passione che ci ha riportate agli anni in cui da ragazze condividevamo la stessa casa.Fin dalle prime mosse ci siamo accorte che scrivere un libro sul sapere è un’impresa (quasi) impossibile. Questo pensiero ci ha accompagnato mentre appunti, libri e autori cominciavano ad affollare il nostro tavolo da lavoro. Ogni idea di conoscenza che inizialmente poteva apparirci unitaria e accessibile è divenuta ingovernabile non appena abbiamo tentato di esplorarla più da vicino. I limiti dei nostri mezzi hanno presto rivelato la vastità dell’impresa. Sapere è, con un gioco di parole, un verbo all’infinito.Scrivere un libro sul sapere a partire dalla nostra esperienza è stata invece una specie di necessità, nata da una profonda insofferenza. Insofferenza verso un’idea convenzionale di sapere che ignora le relazioni e le comunanze tra i suoi vari campi e si trincera dietro codici e discipline. “Ah, ma anche i pedagogisti fanno ricerca?”, “Ma tu sei architetto o ingegnere?”, “Se sei musicista perché hai studiato anche filosofia?”, amenità che rivelano schemi precostituiti e ben consolidati nel nostro contesto culturale. Insofferenza verso un clima culturale che spesso separa educazione ed esperienza, sapere e vita, erigendo muri invalicabili tra fare e pensare, tra pensiero e sfera affettiva ed emotiva. Insofferenza, infine, verso quelle istituzioni scolastiche e universitarie nelle quali svolgiamo il nostro lavoro, che non sempre si rivelano capaci di rimuovere le disparità tra chi eredita un capitale culturale e chi rischia di non accedervi mai. Nel nostro Paese la scuola da molto tempo non è più in grado di garantire mobilità sociale, accesso alle professioni, acquisizione di cultura alle fasce più deboli della popolazione. Se non è il merito e la conoscenza a fare la differenza nei luoghi di lavoro ma i natali e “le conoscenze”, come possiamo motivare i ragazzi a leggere e studiare con passione e generosità?Così, dopo che per lunghi anni i nostri destini di studio e professionali ci avevano condotte ad approfondire campi del sapere distanti – Elena, architettura e urbanistica, Chiara, musica e filosofia, Anna, psicologia e pedagogia – questa ricerca condotta insieme ha restituito prima di tutto a noi stesse un’idea unitaria del sapere e il suo profondo legame con la vita.Per un anno abbiamo compiuto libere scorribande una nelle letture e materie dell’altra, in modo vorace e senza vincoli, concedendoci il piacere di accostarci a temi e pensatori mai incontrati. Un esercizio liberatorio e assolutamente salutare di apertura della mente. Ogni libro diventava tra noi fertile terreno di scambio e di confronto.Siamo tornate ai libri della biblioteca di casa, a quelli letti durante gli anni del liceo, dell’università o durante l’attività di ricerca, per interrogarli con nuove domande. E ci siamo accorte che gli autori che avevano lasciato il segno più profondo nella nostra formazione avevano, pur diversi, un tratto in comune: la capacità di passare da una disciplina all’altra con libertà, di abitare il margine del proprio sapere, della propria identità e professione. Figure non a caso complesse, sfaccettate, aperte alla contraddizione, che hanno alimentato in noi l’aspirazione a un sapere dinamico e aperto, che nasce dall’esperienza.Come Primo Levi, anima senza saldature, in cui non è possibile scindere l’osservatore dal testimone, lo scrittore dallo scienziato, l’italiano dall’ebreo. Come Hannah Arendt, che ha saputo intrecciare l’attività del pensiero con la concretezza dei corpi e dei legami tra le persone. Come Charles Darwin, che ha passato la vita a estrarre l’ordine dal groviglio, meravigliandosi del misterioso legame fra la propria ragione e l’universo. E come ancora, in modi sempre diversi, Pavel Florenskij, Martin Buber, Giancarlo de Carlo, Maria Montessori, Tagore, Martha Nussbaum, Richard Sennett, Edgar Morin.Non si trattava solo di riscoprire o rileggere il loro contributo umano ed intellettuale, quanto di porli in dialogo l’uno con l’altro, quasi immaginandoli seduti al nostro stesso tavolo a indagare le questioni che man mano si ponevano. La loro lezione ci è apparsa viva e attuale.Il secondo anno di lavoro, quello della scrittura, è stato così connotato da un lavoro di sintesi e di selezione di quegli autori e quegli snodi tematici che più corrispondevano alla nostra sensibilità che, come i “pescatori di perle” di cui parla Hanna Arendt, abbiamo raccolto e provato ad intrecciare in un’unica rete.Il terzo anno è trascorso all’insegna della ricerca di un editore disposto a sostenere il nostro progetto interdisciplinare. Non ci crederete ma l’obiezione più frequente al nostro lavoro, anche da parte di coloro che ne riconoscevano il valore culturale, si può riassumere nella seguente espressione: “non sapremmo in quale scaffale della libreria metterlo”. Sì proprio così, fateci caso, nelle più belle e serie librerie il sapere è diviso ordinatamente in scomparti, alcuni temi sono fortemente rappresentati altri nascosti in cima ad una scala. E se un libro esce dal canone, diviene subito di difficile collocazione, dunque di accessibilità, dunque di vendita. Un criterio economico assolutamente comprensibile ma che rischia di non farvi incontrare mai per caso il volume “fuori formato”.In un tempo nel quale è venuta meno un’idea condivisa e alta di cultura, e appaiono sempre più in difficoltà alcune delle istituzioni culturali più rappresentative, la scuola, l’università, i luoghi della formazione musicale e artistica, i musei, questo libro si rivolge a chi continua a credere che la cultura sia la vera ricchezza di un Paese. A un lettore giovane che si affacci, come molti degli studenti che incontriamo nelle nostre attività didattiche, con curiosità e con smarrimento sul proprio futuro umano e intellettuale. Ma non solo. Il libro si rivolge anche a chi, consapevole che la conoscenza sia esperienza umana che mai si compie e mai ci appaga, abbia voglia ancora di coltivare quella curiosità e quello smarrimento. Si rivolge a chi ama la frontiera ed è disponibile ad accostarsi a forme espressive diverse dalle proprie, avvertendo la necessità di interrogarsi su cosa significhi oggi sapere. A chi pensa che studiare economia sia importante quanto saper porre le mani su uno strumento musicale, a chi ritiene più utile porre la giusta domanda piuttosto che possedere la risposta giusta, a chi cammina per strada e ama guardarsi intorno, a chi sa di avere debiti di gratitudine quando trova una buona idea, a chi pensa che sapere non sia accumulare conoscenze, a chi osa alzare la mano per esprimere il proprio dissenso, a chi sa perdere tempo, a chi sa accorgersi dello sconosciuto.Al lettore non verrà proposto un percorso lineare, né di confrontarsi con specifiche questioni epistemologiche legate ai singoli campi del sapere, ma di misurarsi con un tentativo di enciclopedia, secondo la sua accezione originaria di messa in circolo del sapere, così come l’ha definita Edgar Morin. Un esercizio di apprendimento a più voci, entro un processo vitale e dialogico.Anche per sperimentare in prima persona questo principio di coralità e dialogicità, il libro è scritto a sei mani ed è espressione di un pensiero condiviso che per esprimersi si è avvalso del noi, in un costante intreccio tra memoria, narrazione, narrativa e meditazione esistenziale e critica. Solo tre volte al lettore saranno proposte brevi riflessioni in prima persona singolare e in chiave autobiografica che rendono conto dei nostri percorsi individuali (e che saranno firmate con l’iniziale del nome di ciascuna). Dopo tanto lavoro insieme non siamo più in grado di rivelare al lettore a chi appartenga la maternità di idee e parole: molti dei libri, degli incontri e dei luoghi che fanno di noi quello che siamo, sono stati da sempre e per sorte condivisi.

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Il libro si snoda attraverso cinque tappe della conoscenza e del sapere che ci paiono necessarie per un percorso formativo che voglia tenere conto della persona nella sua interezza e complessità. Eccole, nell’ordine:IL SAPERE DELLE COSE. È centrale nella vita dell’uomo il contatto con le cose: un’esperienza che ha inizio coi primi giochi e che prosegue in ogni attività pratica, artigianale e creativa. Imparare sperimentando significa provare e riprovare, perfezionare la sensibilità delle mani, accrescere la capacità di apprendere dall’errore, di conoscere la realtà attraverso la materia, di riflettere sugli esiti e gli imprevisti del proprio agire. L’uomo impegnato nell’attività pratica è capace di pensiero, un pensiero che si misura con la necessità di fare bene le cose, di fare dialogare le mani, le gambe, i movimenti con la testa. Applicarsi allo studio di uno strumento musicale, praticare uno sport, esercitarsi in un gioco sono forme di apprendimento costante e quotidiano che, attraverso la prova, la ripetizione e l’errore consentono di prendere le misure di se stessi e del mondo. IL SAPERE DEL LUOGO. È nell’esperienza del viaggio, della scoperta di una città sconosciuta, nella ricostruzione di una sequenza di fatti ed episodi della nostra vita, che ciascuno di noi mette in campo un sapere intuitivo che interpreta gli indizi e le tracce, fa tesoro degli elementi marginali e all’apparenza meno rilevanti della realtà. Si tratta di un sapere che nasce dall’esperienza ma che possiede in sé lo slancio utopico dell’astrazione, che legge il dettaglio per ricondurlo all’universale, che continuamente oscilla tra la possibilità di orientarsi mediante i segni e l’eventualità di perdersi nell’immensità del mondo. IL SAPERE DEL TEMPO. Il sapere è come un grande affresco collettivo, come un grande albero che si sviluppa lentamente per un’intima necessità di rimanere attaccato alla radice che lo ha generato. Eppure, costantemente si modifica, si articola, volge altrove la propria direzione, pena l’esaurimento del proprio potenziale. Questa tensione tra continuità e innovazione è la sfida più grande di ogni sapere in relazione al passare del tempo. Ogni visione semplicistica della trasmissione della conoscenza come trasferimento di informazioni da uno che sa a uno che non conosce, oggi richiede di essere superata per rimettere al centro il soggetto che apprende, interpellato a trasformare e reinventare la cultura e la conoscenza ricevuta. IL SAPERE DELLA RELAZIONE. La conoscenza presuppone l’esistenza e l’interazione con l’altro, componente necessaria e intrinseca al processo di costruzione di qualsiasi nuova idea. La conoscenza si genera nell’incontro, nello spazio tra parola e silenzio, tra domanda e risposta, persino tra quelle parole che non abbiamo avuto il tempo di proferire. Eppure questa possibilità di entrare in relazione è continuamente messa alla prova: entrare in relazione con l’altro comporta fatica e superamento di continue impasse, equivoci, incomprensioni, malintesi. Per questo, nello scambio quotidiano tra le persone, come nelle grandi architetture istituzionali, sono necessari dispositivi di mediazione tra le persone che guidino e orientino lo scambio, rendendolo possibile e fecondo. IL SAPERE INATTESO. Quante volte nell’esperienza di lavoro, di ricerca, nella creazione artistica si lavora per mesi o per anni procedendo nel buio, senza vedere il risultato. Poi d’improvviso si scorge una via che apre un varco di comprensione e chiarisce il percorso compiuto. La capacità di travalicare il limite, di vedere in profondità, di intuire una soluzione attiene all’ampio campo dell’immaginazione, attitudine necessaria tanto nelle scienze e nel lavoro sociale, quanto nelle attività artistiche e creative. Le grandi opere della poesia, delle arti, della letteratura, le grandi scoperte scientifiche e dell’ingegno prendono vita entro un equilibrio misterioso tra limite e capacità, calcolo e immaginazione, previsione e gratuità.

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