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URBICIDIO. La parola che pensavo di avere dimenticato

Scrivo di città nei giorni in cui si sta consumando - inatteso e sconcertante - un nuovo urbicidio nel cuore dell’Europa. Ho negli occhi le immagini delle città ucraine, della capitale Kiev con la sua elegante architettura, le piazze larghe e piene di fiori, le strade ben curate; la guerra fa scempio dei corpi delle persone, delle loro anime ma si accanisce anche sulle città che le comunità hanno edificato, curato, trasformato nel tempo. La guerra distrugge tutto in una follia di cancellazione del nemico che è anche e sempre cancellazione della sua cultura e dei suoi luoghi di vita. E come possiamo noi cantare di città del futuro, di città sostenibili e sempre più adatte ad accogliere i nostri desideri di vita e di serenità, con il piede straniero sopra il cuore? Nel mezzo di questa furia distruttrice?Avevo dimenticato questa parola terribile “urbicidio” pensando all’Europa, parola terribile coniata da un gruppo di architetti jugoslavi all’inizio degli anni Novanta, descrivendo quello che stava accadendo nel loro paese che andava in frantumi. È stata la guerra della mia giovinezza, quella a un passo da casa, la più vicina che potessi immaginare. Oggi il mio cuore di madre si ferma di fronte alla sofferenza delle madri e dei figli, dei bambini e delle famiglie, dei ragazzi colti da un rigurgito violento della storia che nemmeno potevano immaginare, la mia testa di urbanista si sofferma sui giardini ben curati, i cordoli delle strade, le facciate restaurate, i grattacieli e i monumenti storici che si ergono dentro un tessuto elegante e arioso, prima della rovina, attraverso le immagini che arrivano dai media. Le strade ampie con aree verdi ben curate, gli spazi gioco per i bambini, i negozi chiusi a proteggersi inutilmente dall’assalto dei militari russi. Si cerca rifugio nel sottosuolo, nelle metropolitane, nei bunker, nelle cantine delle case. È proprio quando una città viene colpita così a tradimento che se ne coglie la imperfetta ma straordinaria complessità, il lavorio profondo che l’ha resa tale; a Kiev abitavano fino a pochi giorni fa quasi tre milioni di abitanti erediti di una storia lunga che nel tempo ha riplasmato luoghi, strade, case, chiese, costruito scuole e giardini, centri commerciali e musei. Le città sono davvero l’opera più alta e complessa che le società sanno realizzare.Ogni città è attraversata da trasformazioni continue, così impercettibili che fatichiamo a vedere. Si tratta di evoluzioni lente di cui ci accorgiamo solo tardivamente e con sorpresa quando la trasformazione è ormai avvenuta. Poi ci sono gli eventi imprevisti e radicali, quelli che non avevamo contemplato e che imprimono un segno più forte di cambiamento: una crisi economica, politica, una guerra, appunto, oppure - come stiamo vivendo in questi anni - una pandemia.La pandemia che ha messo a dura prova le nostre sicurezze più profonde, che ha messo in discussione il nostro modo di lavorare e di abitare, trasformando tempi e luoghi della vita associata. Se aggiungiamo i cambiamenti climatici che hanno ripercussioni sulla tenuta dei nostri sistemi naturali, non possiamo che interrogarci con ancora più responsabilità e vorrei dire con ancora più amore sul destino dei luoghi che abiteremo. Sono ore terribili, ancora in bilico, dove tutto può ancora succedere. E il senso del nostro poter vivere insieme in pace torna a interrogarci profondamente. Mescolarsi tra la folla, cenare fuori con un amico, andare a un concerto o a una partita: ci accorgiamo di quanto sia straordinario fare cose ordinarie in città, solo quando questa possibilità ci viene a mancare. Amiamo vivere, pensare, incontrarci in quelle strade strette e dense di vita, attardarci nei bistrot e nei locali illuminati fino a tardi, prolungare le parole nella penombra delle piccole piazze.Eppure, fare cose normali in un giorno qualunque, stare con gli amici a parlare fino a notte, non è privilegio delle più belle città europee. È la domanda legittima di ogni generazione, il senso profondo di ogni città.Non sarebbe la normalità desiderata dai ragazzi di Beirut o di Damasco, di Gerusalemme o di Istanbul, di Atene e di Baghdad? Come ci somigliano quei volti. Siamo di nuovo noi, i nostri figli, i nostri studenti e colleghi. Amano le cose che amiamo noi, in un mondo nel quale le culture si mescolano e le reti ci confondono. C’è un’ordinaria felicità a cui tutte le città aspirano, da Kiev a Damasco. A cui tutti i popoli aspirano. Quella che oggi vediamo messa nuovamente in pericolo, insieme alla libertà, alla democrazia, alla pace.

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Elena Granata

Professore Associato di Urbanistica al Politecnico di Milano, docente alla SEC (Scuola di Economia Civile) e all’Istituto Universitario Sophia. Autrice di libri, saggi e articoli su riviste scientifiche e divulgative. Consulente di istituzioni pubbliche e private nel campo delle politiche urbane e culturali. Da anni si occupa di branding culturale e delle relazioni tra imprese e territorio. Co-founder di I’mpossible studio.

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