
La valle del Gran Paradiso va ascoltata, non urbanizzata
«Il destino delle montagne è tornare pianure, una pietra dopo l’altra, un’alluvione dopo l’altra», mi dice laconico il forestale-geologo Giorgio Elter, davanti alla sua azienda agricola affacciata sul Gran Paradiso. Capisco subito di aver fatto la domanda sbagliata: capire cosa sta accadendo alle nostre montagne significa attraversare ere geologiche prima di atterrare nel presente. E per Elter, ciò che noi percepiamo come emergenza – piogge torrenziali, frane, torrenti in piena – è solo un frammento di un processo che dura milioni di anni. Meglio allora prendere le misure, prendere fiato e osservare con serenità quello che accade attorno a noi.Il suo messaggio è chiaro: le montagne si muovono, hanno vita propria, alluvioni e smottamenti fanno parte della loro fisiologia. Siamo noi, terrestri con scarsa cognizione geologica e grande fragilità, a dover imparare a convivere con gli ambienti che cambiano. Elter mi spiega che la Valnontey – splendida valle nel Parco Nazionale ai piedi del massiccio del Gran Paradiso – poggia su depositi morenici instabili, vulnerabili a erosione e trasporto solido. Ciò che chiamiamo “dissesto” non è necessariamente un male: è l’evoluzione naturale delle montagne. Mica facile, là dove il turista magari vede una rovina, lo studioso riconosce un nuovo assetto, nato da un franamento che verrà poi ricomposto nel tempo dalla natura. Una natura che però interagisce con l’uomo e le sue azioni. Paolo Rey, fotografo di Cogne, mi mostra le immagini della valle dall’inizio del Novecento; in quella sequenza di immagini il torrente, un tempo sinuoso, appare progressivamente raddrizzato, incanalato, imbrigliato. Il torrente somiglia a un ragazzo ribelle piegato con la forza a un ordine che non gli appartiene. Non è forse in questa forzatura che si nasconde la sua attuale furia distruttrice?Le giovani valli alpine sono le più instabili, e la crisi climatica, che concentra piogge violente in brevi periodi dell’anno, ne amplifica la fragilità. Alluvioni lampo, frane improvvise, rottura di argini: il rischio cresce in un contesto già saturo di detriti e rocce. Quando la pioggia si fa intensa, i torrenti non trasportano a valle soltanto acqua ma anche sedimenti, massi, materiali di ogni dimensione. Gli esperti lo chiamano “trasporto solido”. È questo miscuglio a minacciare davvero i nostri insediamenti. Il nodo non è quindi solo la quantità d’acqua in sé, ma la combinazione di acqua e detriti che il torrente scarica a valle. Continua a leggere l'articolo di Elena Granata pubblicato su linkiesta.it

Elena Granata
Professore Associato di Urbanistica al Politecnico di Milano, docente alla SEC (Scuola di Economia Civile) e all’Istituto Universitario Sophia. Autrice di libri, saggi e articoli su riviste scientifiche e divulgative. Consulente di istituzioni pubbliche e private nel campo delle politiche urbane e culturali. Da anni si occupa di branding culturale e delle relazioni tra imprese e territorio. Co-founder di I’mpossible studio.