Tutto è un prestito e ciò che ci definisceviene da lontano

Pensieri sull’Europa, guardandola dalle sue città

È la biodiversità il codice delle città europee. Anzi si potrebbe dire che la loro storia - che è quella dell’Europa - è la storia di un’unica matrice declinata in infinite forme e accezioni.Pur dentro una molteplicità di principi insediativi - Parigi non è Roma, Venezia non è Vienna, Pietroburgo non è Berlino, Bruges con è Palermo - nelle città europee si è mantenuta nei secoli quella compattezza e riconoscibilità dei tratti urbani che l’ha connotata fin dalle origini, insieme ad un modello sociale capace di tenere insieme le diversità culturali entro forme di convivenza aperte e non necessariamente comunitarie [1]. Le città nate nel medioevo, come ricordava Leonardo Benevolo qualificano ancora in modo preponderante le città cresciute molte volte nelle epoche. A questa eredità dobbiamo la nozione stessa di città come soggetto individuale e in qualche modo animato, non riducibile alle formalità recenti delle istituzioni nazionali e sovranazionali; ad essa sentiamo di appartenere, da essa accettiamo di essere qualificati: parigini, londinesi, veneziani e anche cittadini del quartiere o del borgo dove abbiamo collocato la nostra solidarietà; qualificati, non diminuiti e in certo senso aumentati, per la ricchezza di esperienze umane accumulate in quel luogo [2]. Quelle stesse città hanno sempre superato le rotture di lungo periodo dei secoli successivi. Nonostante le guerre, le rivoluzioni, il cambiamento radicale degli assetti politici che ha ripetutamente sconvolto il loro destino, l’insieme del sistema è rimasto stabile nei secoli, con un mantenimento dei vecchi centri e dei quartieri storici nel cuore delle città. Una certa omogeneità caratterizza le città europee, nonostante le differenze locali e culturali, rafforzata dal fatto che i grandi cicli di urbanizzazione sono stati abbastanza comparabili nei vari Paesi.Nella biodiversità Benevolo individua alcune ricorrenze: una spregiudicata invenzione di nuovi manufatti, la reinterpretazione dei dati ambientali (fiumi, colline, pianure), l’audacia nel trasgredire le regole tradizionali ereditate dal mondo classico. Le città europee hanno fin dal principio sostituito all’ordine e alla perfezione delle città romane, basate sulla logica, la geometria, la simmetria, una “familiarità con l’imperfezione, una tolleranza dell’irregolarità, dell’incompiutezza, del contrasto, che resteranno durevoli delle città europee” [3]. Qui sta il carattere distintivo, rispetto ad altri modelli urbani.Città imperfette, incompiute, irregolari, integrate con il paesaggio, capaci di ospitare e integrare le differenze, irrisolte e aperte. L’imperfezione del manufatto urbano è l’esito del suo essere un format aperto, disponibile ad evolvere, capace di riscriversi sempre negli stessi luoghi, del suo essere incompiuto e sempre irrisolto [4].  Ma questo non è esattamente anche la sua cifra sociale e culturale?Qui sta tutta la ricchezza, il paradosso, persino la debolezza, dell’Europa delle sue città.Affermiamo la nostra appartenenza alla cultura europea proprio con la capacità di conservare una certa distanza critica da noi stessi, di guardarci con gli occhi degli altri, di apprezzare la tolleranza nella vita pubblica, lo scetticismo nel lavoro intellettuale, la necessità di confrontare tutte le ragioni possibili [5]. Il proprio dell’Europa è non avere un proprio: non è la sua storia, non è il suo dentro rispetto a un fuori, non è un noi contro un loro, non è un club cristiano, né un club scristianizzato (secondo l’espressione di Ulrich Beck), non è una comunità d’elezione, non è un luogo ma un legame, è la disposizione ad aprirsi ad altre identità, per salvarsi dal suo passato e dai suoi errori (ed orrori). Come scrive Gianni Vattimo è destinata ad abdicare a qualsiasi immagine di sé stessa, per passare dall’universalismo all’ospitalità. E questa storia e questo destino Alain Finkielkraut ce lo racconta con l’immagine del platano. Un albero che è diventato un simbolo dei parchi europei è arrivato in Francia solo dopo il sedicesimo secolo. E così il cedro, l’acacia, l’eucalipto, l’ippocastano, naturalizzati francesi da poco meno di tre secoli[6]. Ogni orto in Francia è un esperimento di acclimatamento, è un innesto artificiale in un contesto non autoctono: su ogni pianta potremmo scrivere, pianta straniera, pianta che viene dall’Africa, oppure pianta che viene dall’Asia o dall’America. Tutto è un prestito nel nostro paesaggio, ciò che ci costituisce viene da lontano. L’Europa ha vissuto della propria biodiversità; parla decine di lingue grazie a coloro che vi hanno trovato rifugio nei millenni. Occupa da nord a sud e da est a ovest centinaia di ecosistemi differenti. Ha ovunque, in ogni piega del terreno, a ogni angolo di strada, il segno di una battaglia, di una conquista. Ha città, tutte diverse e così tutte originariamente somiglianti. L’Europa è un arcipelago di città.Come scrive Latour, «guardatele, queste città, e capirete perché dappertutto ci si mette in marcia per avere una possibilità di abitarci - anche solo nelle loro periferie»[7] (p. 134). Ha mantenuto una campagna prossima alla città, nutrito paesaggi differenti, coltivato amministrazioni secolari. Non ha confini, li ha sempre cambiati. È europeo chi vuole esserlo. Così è sempre stato fin dalla sua nascita.  Cresce quando è biodiversa. Cresce quando è inclusiva.Una lezione che oggi rischiamo di dimenticare in nome di una presunta omogeneità di identità e di una ancor più pericolosa superiorità morale e culturale. 

Il ritorno dei confini e dei muri

 Ci eravamo illusi, in qualche modo, che nel tempo della globalizzazione, della mobilità delle persone e delle merci sul territorio, lo spazio fisico che calpestiamo e attraversiamo sarebbe diventato liscio.Invece i confini si sono moltiplicati. Anche lo spazio europeo è tornato ad essere tagliato e interrotto da muri, recinti, soglie, ostacoli, bordi normati, frontiere virtuali, aree specializzate, zone protette. Muoversi, spostare il proprio corpo da una strada all’altra, o da un aeroporto all'altro o, significa oggi sfidare un numero crescente di sistemi di controllo e di confini. Invece che liscio, lo spazio sembra diventato un denso agglomerato di sottosistemi che corrugano il territorio, rivendicando la loro identità (a dominanza sociale, culturale, etnica, religiosa).Invece che liscio, lo spazio sembra diventato un denso agglomerato di sottosistemi che corrugano il territorio, rivendicando la loro identità (a dominanza sociale, culturale, etnica, religiosa). Invece che un fluire libero, i nostri movimenti assumono sempre più la forma di sussulti e soste.Esiste una variegata moltitudine di confini che spezzetta e circonda la nostra vita quotidiana, la moltitudine di confini che frammenta e scheggia intere parti del nostro pianeta, potremmo forse capire che i confini sono anche dei sensori delle dinamiche del mondo contemporaneo. Sono muri, fili spinati, ma sono anche norme, regole non scritte, impedimenti.Il confine è il luogo dell’antinomia: divide e unisce, separa e trattiene, aggrega e allontana, assegna una dimora e stabilisce un’alterità, distingue ed è fonte di significati. I confini sono la condizione stessa delle nostre esistenze, luogo dove trovano espressione e verifica le nostre identità. Abitare un luogo richiede l’esperienza e la pratica dei confini, dei margini. Nello stesso tempo i confini sono il terreno dove originano gli antagonismi e i conflitti. Sono all’origine di separatezze oppure sono occasioni di incontro tra alterità. I confini tengono l’altro al di fuori del nostro spazio, nello stesso tempo consentono che si aprano relazioni. Le élite populiste ripropongono una visione corta, un’idea di confine novecentesco, pensano a muri, frontiere, passaporti negati. Non hanno idea che i cambiamenti climatici non rispettano i visti e i muri. Invocano il silenzio, la rimozione collettiva. Del mutamento climatico colgono solo il primo aspetto: il movimento migratorio di masse di disperati alla ricerca di nuovi luoghi dove vivere e se ne vogliono proteggere respingendoli in ogni modo. Chiudono frontiere, porti, aeroporti. Non colgono l’esistenza di migrazioni invisibili, che si chiamano cambiamenti climatici, inquinamento, esaurimento delle risorse, distruzione dell’ambiente. È possibile invece immaginare di uscire da questa polarizzazione che contrappone un’idea di confine come chiusura, muro che difende, alla pretesa opposta che solo la completa assenza di confini possa permettere un’autentica integrazione e la convivenza pacifica? Se non è una linea o un muro, cosa può diventare, come si può concettualizzare il confine? Dobbiamo trovare altri modi di pensare i confini, cercare altrove possibili soluzioni. In natura non prevalgono i confini netti ma i margini sfrangiati. Nel passaggio dal bosco al prato, ad esempio vige la gradualità che garantisce l’insediamento di molte specie animali, che usano il margine per cacciare o trovare rifugio o di molti vegetali. Il margine viene colonizzato da specie eliofile e da arbusti che in un bosco non troverebbero la luce sufficiente. Gli arbusti producono frutto, molto apprezzato da una serie di insetti e animali. Il margine protegge la parte più interna del bosco, habitat per altre specie. Una quota considerevole di biodiversità è concentrata proprio in questa fascia.Quanto siano importanti i confini imprecisi e laschi ci viene rivelato dal racconto della natura. Gli uomini del nostro tempo sembrano invece preferire quelli chiusi e rigidi, le contrapposizioni al dialogo, le identità inventate ai reciproci debiti. 

Sconfinare. Tutto cambia e tutto si muove

 Lucien Febvre nel suo libro Europa. Storia di una civiltà [8] riflette sulle mutevoli identità dei luoghi e delle culture d’Europa.Febvre si domanda quali sensazioni potesse provare un abitante di Lione che nel IV secolo dopo Cristo decidesse di mettersi in viaggio, lasciando la propria dimora. Dove si sente a casa? In quali luoghi comincia a sentirsi straniero? Egli si sente a casa sua a Roma, naturalmente, dove ritrova la sua stessa cultura e anche gli stessi modi di vivere, ma si sente a casa sua anche a Gadès, in Berice e perfino a Cartagine, alle soglie dell’Africa. Se fa parte dell’aristocrazia senatoria, può possedere proprietà in Grecia o in Asia minore. Non si sente straniero neanche negli ambienti colti di Antiochia o di Alessandria. Comincia a sentirsi straniero solo allorquando passa il Reno e varca il Danubio, allora sì che comincia a sentirsi perso, capisce di essere in mezzo ai barbari. Quella geografia di luoghi accumunati da una comune cultura, da comuni valori e stili di vita, viene stravolta e riconfigurata dal passare del tempo. Se immaginassimo - prosegue Febvre - di seguire in viaggio un abitante della stessa Lione nel IX secolo, dopo solo una manciata di decenni, saremmo costretti a osservare che tutto è cambiato. Lo stesso abitante di Lione che decidesse di mettersi in viaggio non si sentirebbe più a suo agio a Cartagine, ormai conquistata dagli Arabi e piegata a un’altra lingua e cultura. Non è più a casa sua a Gadès, che fa parte del Califfato di Cordova. Ad Atene, a Costantinopoli, a Nicea, a Ravenna, ormai si troverebbe circondato da scismatici che parlano solo greco, con costumi e usanze quotidiane ormai distanti da quelle a lui familiari.Invece, differentemente dal passato, a Münster, a Osnabrük, a Brena, a Magdeburgo si sente a casa, anche se non parla la lingua popolare, la lingua volgare degli abitanti di quei paesi. Può, infatti, parlare con i chierici, che pensano in latino e questo lo mette sicuramente a proprio agio.Può discutere con loro di letteratura e di filosofia e in qualunque chiesa entri può assolvere senza difficoltà ai propri doveri religiosi. L’esempio di Febvre è illuminante: scandagliando con brevi esempi le trasformazioni culturali, politiche, civili, urbane avvenute nell’arco di pochi secoli mette in evidenza la dinamica di dissoluzione e rinascita delle culture, delle identità dei luoghi e delle comunità. Un’intrinseca precarietà e mutevolezza di forme sembra contraddistinguere la storia degli uomini. Per questo dobbiamo guardare ai fenomeni sociali con la capacità di trascenderli e di guardare oltre, evitando letture di retroguardia che arrivino a descrivere i fenomeni sociali, sempre e solo, quando le cose sono già mutate.Oggi uno studente Erasmus olandese può sentirsi a casa in Italia, come un professore italiano può continuare a sentirsi italiano pur lavorando da anni a Londra. Già molte lavoratrici rumene hanno imparato a vivere su due paesi, senza dover recidere i legami con la loro terra di nascita e giovani imprenditori di origine cinese si pensano cittadini delle filiere lunghe dei loro commerci. Un ragazzo italiano di origine tunisina si sente profondamente coinvolto nel cambiamento avvenuto nella terra dei suoi nonni, senza per questo smettere di proiettare il suo futuro in Italia: vive qui, ma sogna anche lì. In questa prospettiva, se vogliamo provare a capire qualcosa della nostra epoca, abbiamo bisogno di sconfinare rispetto a una certa idea di spazio, per comprendere la precarietà dei confini, delle definizioni e dei dispositivi spaziali. Abbiamo bisogno di sconfinare rispetto a una certa idea di tempo, per cogliere meglio il mutamento, la dinamica, la trasformazione incessante, per imparare a giocare d’anticipo rispetto ai cambiamenti sociali in corso. Abbiamo bisogno di sconfinare rispetto a una certa idea di cultura, per liberarci da quegli schemi e paradigmi che ci fanno cogliere alcuni aspetti della realtà ma ne mettono in ombra altri e tendono a confinare le culture nei loro recinti immutabili.  ______[1]Granata Elena, Biodivercity. Città aperte, creative e sostenibili che cambiano il mondo, Giunti, Firenze, 2019.[2] Benevolo Leonardo, La città nella storia d’Europa, Laterza, Roma-Bari, 1996, p.79.[3] Benevolo, La città nella storia d’Europa, Laterza, Roma Bari, 1992.[4] Granata Elena, Pacchi Carolina, La macchina del tempo. Leggere la città europea contemporanea, Marinotti, Milano, 2011.[5] Kolakowski Leszek citato in Finkielkraut Alain, L’identità infelice, Guanda, Milano, 2015, p. 81[6] Febvre Lucien citato in Finkielkraut Alain, L’identità infelice, Guanda, Milano, 2015, p. 91.[7] Latour Bruno, Tracciare la rotta. Come orientarsi in politica, op. cit., p. 134.[8] Febvre Lucien, Europa. Storia di una civiltà, Donzelli, Roma, 1999. 

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