Casa: una questione di scarsità o di equità?

Casa: una questione di scarsità o di equità?

È evidente che la scarsità di case, che corrisponde alla difficoltà di molti ad avere una casa dignitosa, non è problema di quantità ma di equità e di pari opportunità nell’accesso alle risorse. Nelle società moderne la scarsità – di case, di servizi, di beni, di cibo – non esiste di per sé, è sempre il frutto di meccanismi di “produzione collettiva”, che ha stretti legami con i valori, la qualità delle relazioni sociali, con lo sguardo con cui si gestiscono i beni e si affronta il futuro. Dietro la scarsità di case dunque si intrecciano molte cause: c’è un problema di mercato abitativo non regolato, di politiche non adeguate, di mancanza di regole certe, così come di comportamenti diffusi ispirati al massimo guadagno e alla speculazione, una sopravvalutazione dell’interesse privato su quello collettivo e pubblico.

Anni fa Majid Rahnema, attento osservatore delle dinamiche legate alla povertà e ai processi di impoverimento, osservava come la povertà moderna non abbia mai un’unica causa, ma sia sempre socialmente prodotta, perché “tutti gli attori sociali sono coinvolti in un modo o nell’altro nella produzione della scarsità. Poiché tutte le istituzioni, ma anche tutti gli individui che ricavano i loro redditi dalla produzione economica, sociale, politica, culturale, educativa, di ricerca, ecc., svolgono un ruolo nel continuo aumento dei poveri, si capisce facilmente come l’eliminazione delle precarietà non possa dipendere solo dal cambiamento di rotta di questa o di quell’istituzione” (Rahnema, 2005, p. 332).

In maniera analoga, possiamo dire, la città, attraverso una pluralità di attori, istituzioni, comportamenti diffusi, produce una varietà di periferie, riproducendo attraverso meccanismi consolidati forme di marginalità e di degrado sociale. Anzi, l’esistenza stessa delle periferie è funzionale alla sopravvivenza di un sistema economico e sociale che di periferie vive.

Per questo motivo spezzare il circolo vizioso della povertà e del degrado non è affatto facile. I quartieri di edilizia pubblica sono talvolta le ultime paradossali istituzioni totali, dispositivi che ammortizzano il disagio psichico in assenza di altri luoghi di cura; rispondono impropriamente alla domanda di case di famiglie immigrate, in assenza di un sano e regolare mercato dell’affitto che consentirebbe loro di stare altrove; sono il luogo di confino di una popolazione che invecchia e vede sfilacciarsi relazioni parentali e di sostegno familiare. Talvolta è il regno incontrastato di prepotenti che approfittano della povertà e della fragilità delle persone, per fare margini e utili.

Negli ultimi anni, poi, dopo un periodo di grande attenzione al tema della casa, di ricerche e di sperimentazioni, il tema della casa pare tornato nell’oblio.

Sono stati pochi i segnali di una riflessione critica in grado di elaborare i termini di una coscienza collettiva più avanzata, sensibile al diritto di tutti ad avere una casa, ma refrattaria ad ogni comportamento speculativo o opportunistico, che in qualche modo assomigli a quella varietà di pratiche di “equità” che in vari campi si sono sperimentate (consumo critico, sostenibilità delle azioni, economia civile).

Una riflettere a tutto campo sulle derive di un eccesso di politica pubblica, come nel caso delle modalità di assegnazione degli alloggi pubblici, sull’applicazione del canone sociale che spesso si trasforma in un eccesso di accompagnamento sociale, quando addirittura non genera piccole rendite di posizione, così come sulla assenza del soggetto pubblico, non solo come eventuale promotore edilizio, come soggetto di nuove offerte (a canone moderato in nuove realizzazioni), ma anche come regolatore di un mercato che specialmente verso gli immigrati assume un carattere totalmente sregolato, illegale, speculativo.

Una riflessione capace di spingere ad un impegno pubblico l’attività dei soggetti privati, come nel caso della cooperazione edilizia che talvolta fatica a integrare una logica di mercato con una più attenta alla componente sociale o come piccoli proprietari che sembrano particolarmente restii a comportamenti eticamente orientati anche in presenza di forme di garanzia pubbliche.

 

I comportamenti abitativi, al pari di altri costumi sociali condivisi, hanno molto a che fare con i valori e le abitudini sociali. Temi come la fiducia, la disponibilità alla condivisione dei beni, l’apertura allo sconosciuto, l’attitudine alla collaborazione e a trovare risposte in modo collettivo e non solo individuale appartiene a quel campo di habitus sociali che una comunità si dà nel tempo.

Nel caso biellese sembra esserci anche un problema culturale. La casa viene fatta coincidere con la proprietà e con il nucleo familiare. Ogni idea di condivisione degli spazi, di coabitazione, di co-housing che in altri contesti ha trovato ampio spazio, risulta ancora di difficile accettazione sociale. La casa resta un fatto privato e anche cercare casa una pratica in qualche modo inconsuete persino per le nuove generazioni. Su questo aspetto bisognerà lavorare non solo in termini economici ma soprattutto simbolici e culturali, proponendo nuovi immaginari e valori (come sta avvenendo ad esempio nel campo del turismo dove accanto ad alberghi e offerta tradizionale di stanze si stanno affiancando b&b, sistemi alternativi come Airbnb, che allargano il campo dell’offerta e della domanda).

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