Milano. La città dalle sette vite
Ripensare Milano a partire da una politica della transizione ecologica urbana che sia strategica, integrata e volta ai beni pubblici. Per la capitale della biodiversità sociale e del co-working, si aprono nuove sfide in vista delle amministrative.
Milano è stata per anni attraversata da una febbrile eccitazione. La sensazione che qualcosa qui stia sempre per cominciare o ricominciare, una nuova rassegna, una settimana dedicata, un evento imperdibile. Anno dopo anno, Milano ha cambiato pelle: ha attenuato quella sua naturale introversione, quella prevalenza degli interni sugli esterni – città bella solo nei suoi cortili privati e nascosti – ha ricominciato a progettare lo spazio pubblico, si è persino lasciata alle spalle il suo carattere austero, quello che tra gli anni Venti e la fine degli anni Cinquanta ne aveva disegnato il volto di borghesia operosa e ricca. Lo rivela quella densità di nuove architetture, piazze, progetti, strade che ne fanno oggi un continuum di cantieri. Anche in piena pandemia.
Gli investitori economici e le imprese, gli studenti e i turisti di passaggio, i cittadini e gli attori del terzo settore hanno da tempo compreso che a Milano si può osare, si possono mescolare i codici, si possono inventare nuovi stili di vita. Qui si moltiplicano esperienze di partecipazione dal basso, di condivisione di tempi e di beni: l’economia e la vita si organizzano in spazi di lavoro condivisi, dove sembra bello tutto quello che comincia con «co», co-working, co-housing, co-marketing. Sembra, non sempre lo è, ovviamente.Un’eccedenza di capitale sociale e di reti di fiducia che ha consentito anche a temi delicati come l’accoglienza dei migranti, di venire gestita e assorbita dalla società civile in maniera accorta e serena, e decisamente generosa, evitando l’innesco di conflitti locali.
Ma oggi la città dalle sette vite, quella che riemerge sempre dalle sue disfatte, che si rimbocca le maniche, che non protesta né si lamenta, ha davanti a sé mesi di grande incertezza. Uno stallo che potrebbe costringerla a guardarsi dentro con più onestà, facendo i conti con le sue contraddizioni, con le nuove comunità impoverite, e a guardare con maggior distacco a quelle spinte un po’ narcisiste che Marco Garzonio ha messo in evidenza nel suo libro (La città che sale, San Paolo, 2021): pensare sempre di essere la città che vince, ricorrere a narrazioni compiaciute, annunciare con enfasi i progetti pubblici nella continua richiesta di plauso.In questa tensione propulsiva sta la grande forza della città ma si nasconde anche la sua debolezza, la difficoltà a dare voce allo spaesamento dei cittadini, alla debolezza di un sistema sanitario ampiamente privatizzato, agli scarti di questo modello di sviluppo.Quel diffuso entusiasmo collettivo (sano e vitale) ha distratto dal vedere le lunghe fila per il pane, di sentire la vuota solitudine dei vecchi, di capire che la dimensione civile e ambientale richiedono misure straordinarie.
Il milanese-tipo è stato finora l’uomo o la donna adulti tra i 30-54 anni (37%), single, con una buona posizione lavorativa. E questa composizione sociale fatta di soggetti capaci e autonomi spiega perché Milano ponga minore attenzione alla dimensiona pubblica collettiva: l’accesso alla casa, il sostegno alla scuola, l’attenzione alla fascia di popolazione più anziana, la qualità ambientale.
Ma chi sarà il cittadino degli anni a venire?
Partiamo dalla sua connaturata biodiversità sociale. La biodiversità sociale è il tratto da cui la politica non può prescindere. Ci sono più di 250 nazionalità e i cittadini di origini straniera sono circa il 24% dei residenti. Si parlano tutti gli idiomi, le lingue e i dialetti. Nelle scuole sono 34.000 i bambini figli di stranieri che hanno meno di dieci anni e in ogni classe ci sono alunni nati da famiglie immigrate. Sono proprio le scuole il primo luogo di prossimità e di integrazione che consente a ragazzini che vengono da contesti differenti, di condividere la stessa densa esperienza culturale.Il sistema scuola è però da troppi anni sotto sforzo e il «fattore umano» è un bene fragile come tutti i beni comuni, soggetto alla fatica del quotidiano come alle profonde difficoltà che gravano sulle istituzioni scolastiche, legato ad alterne vicende e vicende personali. Non può bastare.
Tre quarti delle donne di questa città sono attive nel lavoro, un dato che solo di un soffio sfiora la metà di quelli che lavorano (48% del totale degli occupati) e quasi la metà delle lavoratrici svolge professioni altamente qualificate: un dato simile a quello delle grandi capitali europee ma con un indice di qualità del lavoro superiore a quello dei Paesi nordici. Un dato cruciale per capire il risveglio di Milano attiene proprio al protagonismo femminile in senso assoluto. Le donne lavorano, sì, ma a Milano pagano più che altrove il prezzo della loro carriera, spesso rinunciando ai figli. Nei prossimi anni si dovrà tornare a pensare seriamente a politiche di sostegno alla maternità e alle famiglie.Tredicimila ragazzi, quasi il 10% degli studenti, vengono a studiare dall’estero, (cinquantamila studenti vengono da fuori sede) tanto che si parla di studentification della città, un neologismo che vuol dire cose contraddittorie: molti giovani in città, università ancora attrattive, fatica a trovare casa e a sostenere il costo della vita, prezzi altissimi e alloggi in condizioni non sempre presentabili.L’accesso alla casa per le nuove generazioni, studenti, giovani coppie, famiglie giovani, è il grande omissis delle politiche milanesi. Se continuiamo a fare coincidere questione abitativa con casa-pubblica o con l’housing sociale, non usciremo dallo stallo di un dibattito tra i soliti addetti ai lavori.
Il dato di realtà ci mette poi con i piedi per terra e ci dice che Milano è tra le prime sei città della pianura padana per giornate fuorilegge per Pm10 e ozono (dati Legambiente, 2019) e l’attenzione per il suolo, per lo spazio aperto, per un sistema connesso di ciclabili sicure, è ancora limitata. Né si può sperare di intervenire efficacemente senza interventi a scala metropolitana e regionale.Milano – con il suo milione e quattrocentomila abitanti al 2020 – è una strana metropoli; se la compariamo con i numeri di città come Parigi (più di 2 milioni), Madrid (3,2), Berlino (3,6) Londra (8,9), Mosca (12), New York (più di 8 milioni), Barcellona (1,6), Istanbul (15), appare quanto meno piccola.Il suo posizionamento come metropoli planetaria lo deve certamente alla sua capacità di stare nelle reti lunghe dell’economia finanziaria, a quella capacità di comunicazione che è cresciuta dal 2015 con Expo e alla naturale disinvoltura di movimento nelle reti culturali e civili del suo sindaco Beppe Sala, oltre alla solidità di alcuni settori economici come la moda, il design, l’innovazione culturale.Si potrebbe dire che ha i numeri di una città media, se la guardiamo secondo una metrica planetaria. Non è una città-Stato, anche se per anni si era convinta di poter procedere come locomotiva solitaria, incapace di portarsi dietro il suo territorio e il resto del Paese. Potrebbe invece tornare ad essere una città-territorio, una città-paesaggio. Al centro dell’attenzione oggi non può esserci più solo il «pieno metropolitano» ma anche il «vuoto del territorio circostante», dice il sociologo Aldo Bonomi, che da tempo richiama l’attenzione su quel fondamentale intreccio tra la dimensione urbana e la dimensione territoriale. Ma da tempo Milano fatica a pensarsi come «città nel mezzo» di reti corte, di prossimità con il proprio hinterland e con un territorio a vocazione agroalimentare, che investa sulla biodiversità, sull’economia circolare in un’ottica di miglior gestione dei cambiamenti climatici. Guardare avanti (al futuro) significa anche guardare fuori dalle solite cerchie sociali e territoriali, costruire reti e legami con un sistema metropolitano più ampio. Ci vuole una nuova idea di città. Se consideriamo le ragioni per cui si deciderà di rimanere a vivere a Milano potendo agilmente lavorare anche da remoto, molto dipenderà dall’attenzione che l’amministrazione saprà attribuire ai beni comuni, alla qualità degli spazi pubblici, all’economia circolare.Non può bastare l’invocazione di una «città del quarto d’ora», non può bastare il comfort di trovare i servizi vicino a casa come metafora capace di costruire immaginari convincenti. Avere negozi, giardini, servizi di prossimità rientra nella dotazione minima di qualità che tutti i cittadini si attendono, al pari della cura minuta degli spazi, dalla capacità di gestire al meglio i rifiuti, alla manutenzione delle strade. Oggi ci vuole, come dice spesso Stefano Mancuso, una «nuova idea di città», radicalmente diversa da quella che abbiamo ereditato, capace di costruire sinergie nuove tra nucleo e orbite esterne, tra città e bacini agricoli, tra città e sistemi naturali.
La sfida dei prossimi anni è così alta da richiedere un mix radicale di interventi. Non possiamo proseguire con l’idea che «basti fare qualcosa» e comunicarla molto bene sui media, non possiamo continuare a pensare che qualcosa è sempre meglio di niente. Non possiamo sperare che basti piantare qualche milione di alberi per stoccare la Co2 prodotta dall’attività antropica e dannosa per il pianeta. Non basta, eppure dobbiamo farlo, dobbiamo spingere in ogni modo le politiche pubbliche a investire in natura (Forestami, per esempio).Una politica della transizione ecologica non può che lavorare sulle ridondanze e sulle capacità di amplificazione che ogni singolo intervento suscita quando si integra con altri interventi: proteggere i suoli e investire sulla rigenerazione urbana, aumentare le isole pedonali e a traffico limitato e intervenire sulla riforestazione urbana, intervenire sul sistema della mobilità e integrare nuove energie sostenibili, riorganizzare il ciclo dei rifiuti e facilitare gli interventi sul patrimonio edilizio, ripensare i tempi delle città e costruire parchi e piste ciclabili. La transizione sta in tutte quelle e, congiunzioni che ci costringono a ripensare ai sistemi nel loro insieme. È questa la visione integrata e strategica che mi pare ancora mancare a Milano.