Se la salvezza delle città non passa (solo) dai big data
Se la salvezza delle città non passa (solo) dai big data
I dati sono il petrolio del XXI secolo. A dirlo è l’Economist, parlando delle compagnie che ogni giorno di più devono la propria ricchezza alle informazioni che riescono a catturare, analizzare e rivendere a soggetti terzi. I big data infatti sono una presenza sempre più pervasiva nelle città e nelle società contemporanee: da una parte, aumentano i dispositivi in grado di tracciare spostamenti, preferenze e consumi; dall’altra, continuano a crescere le analisi che, grazie ai dati così raccolti, riescono a descrivere fenomeni e profilare individui in modo sempre più preciso. Ed è per questo che, di colpo, i dati sembrano in grado di cambiare le sorti dell’umanità, in peggio o in meglio. Per ogni società di consulenza che promette di far vincere un’elezione grazie ai dati raccolti da app e social network, un guru della tecnologia assicura che i big data permetteranno di conoscere al dettaglio ogni problema che affligge le nostre città e trovare la soluzione smart più adatta. Eppure, esattamente come per il petrolio, anche le potenzialità dei dati nascondono dei rischi. Almeno tre, nel caso di chi ricorre ai big data per capire e affrontare i problemi di un territorio.
Intanto, i big data non sono neutrali. I dati sono fatti riguardanti il mondo e le persone, i luoghi, le cose e i fenomeni che lo compongono, che raccogliamo per poter stabilire in che modo agire. Ma i dati non esistono certo in natura. Al contrario, siamo noi a scegliere cosa misurare e in che modo. In questo esatto momento, ciascuno di noi è infinite persone differenti in base a ciò che si scelga di misurare: le condizioni fisiche, il conto in banca, le idee politiche, i minuti passati con un telefono in mano generano differenti dati e descrivono in modi diversi lo stesso individuo; anzi, lo stesso dato può avere un valore diverso a seconda della persona osservata: un manager e un adolescente potrebbero generare la stessa quantità di traffico telefonico, ma per ragioni diametralmente opposte.
Inoltre, i dati in sé non hanno un significato se non quello che scegliamo – anzi, sappiamo – dar loro. Sapere quante persone ogni giorno raggiungono in auto una grande città non ha un valore in sé, mentre importante è sapere quali conseguenze generino questi flussi automobilistici: quanto inquinamento viene prodotto, quanto tempo viene perso nelle eventuali code, quanti potrebbero muoversi più facilmente se il trasporto pubblico fosse un’alternativa più affidabile. Non basta affidarsi ai dati per definire quali sono i problemi di un territorio e come risolverli: al contrario, l’oceano sempre più vasto dei big data richiede inedite capacità di sensemaking, per saper usare criticamente la massa di informazioni prodotte ogni secondo dai dispositivi tecnologici.
I big data non rappresentano poi la realtà in modo esaustivo.
I dati esistono se una persona o un dispositivo li producono – che si tratti di una telecamera che conta le automobili in transito, o un passeggero che traccia i propri movimenti con l’abbonamento dei trasporti pubblici, o ancora di un cittadino arrabbiato che segnala le buche nelle strade del proprio comune. Ma non tutti producono dati allo stesso modo, né si rendono visibili attraverso i dati. Basta pensare cosa significherebbe pianificare i trasporti di una città solo guardando ai flussi prodotti, ad esempio, dal gps degli smartphone. Molte persone non dispongono di uno smartphone ma di un telefono più semplice, privo di gps e dunque non tracciabile: questi soggetti, pur in movimento, sarebbero assenti dai flussi che emergono dai big data. Altri soggetti invece potrebbero volersi muovere ma non essere in grado di farlo per le ragioni più diverse (per una disabilità, la mancanza di risorse economiche, l’assenza di valide alternative di trasporto). Ecco che allora affidarsi esclusivamente ai big data diventa un problema se, per prevedere i bisogni futuri, ci si basa sui comportamenti visibili oggi: come racconta il ricercatore norvegese Tore Sager, “i consumatori non sfuggono al necessario dovere se vogliono godere della libertà di avere l’opportunità di. Devono fare molti spostamenti per essere mobili – anche nel senso di essere potenzialmente in grado di spostarsi”. Chi non si sposta invece non lascia tracce, proprio nel momento in cui diventano sempre più necessarie per poter essere visibili.
Del resto, gli stessi big data costringono a misurare ciò che già sappiamo essere misurabile. Gli algoritmi nascono infatti per replicare, in modi via via più complessi, il modo in cui la mente umana tratterebbe informazioni che, per quantità e qualità, vanno ovviamente oltre le capacità intellettive di una sola persona. Si tratta di strumenti che riescono man mano ad affinare la propria efficacia, grazie agli avanzamenti tecnologici e alla propria natura. L’evoluzione delle tecnologie e la loro diffusione sempre crescente fa in modo che i dati a disposizione siano sempre di più e sempre più precisi: basti pensare alla capacità con cui Carlo Ratti, direttore del Senseable City Lab del MIT, è riuscito a raccontare le fogne di Boston, gli spostamenti dei rifiuti di Seattle e gli spostamenti della folla romana in festa alla vittoria del Mondiale del 2006. Inoltre, gli algoritmi danno continui esempi di machine learning, ovvero della capacità di imparare dalle proprie esperienze passate e migliorare, man mano, la propria precisione: un esempio semplice e al tempo stesso inquietante è dato da Facebook e dalla sua capacità di riconoscere non solo se le immagini che carichiamo raffigurino persone o meno, ma anche quali siano i nostri amici rappresentati da qualche manciata di pixel. Gli algoritmi trattano quindi i dati in forme sempre più raffinate, ma si limitano a svolgere sempre meglio il medesimo compito per il quale erano stati programmati inizialmente, senza dunque riuscire ad aprirsi al nuovo e all’imprevisto.
È forse questo il limite più grande dei big data rispetto alle necessità di città e territori: mostrano, in modo sempre più esatto, ciò che già esiste e sappiamo di poter conoscere. Non colgono invece ciò che resta ai margini ma potrebbe avere altrettanto valore, né lasciano spazio a quel che una città potrebbe essere nel proprio futuro. Per questo occorre un approccio ai big data e alle tecnologie in generale che sia radicale; è quanto invoca Adam Greenfield, esperto di tecnologie e autore di Radical Technologies, dal quale son stati ripresi molti esempi e considerazioni riportati poco sopra. Radicale nella consapevolezza della pervasività dei dati e delle tecnologie nelle società contemporanee, che non ne neghi l’importanza per paura del nuovo. Altrettanto radicale nella capacità di vedere i limiti che le tecnologie possono avere, comprendendo che il loro è un valore strumentale, che sta in ciò che di inedito permettono di fare. Perché la tecnologia da sola non salverà le città, ma sarà fondamentale se proveremo a cambiarle noi stessi.