In nome di Venezia, contro Venezia
La risposta delle ultime generazioni alle forze della natura è stata quella di un uso esasperato e muscolare della tecnica. Così, una cultura ingegneristica improntata alla potenza ha immaginato di rispondere ai problemi di Venezia - delicatissimo sistema ecologico che da secoli tiene insieme la laguna, con le isole e le architetture storiche - con un progetto folle, insostenibile e devastante come il Mose.Un progetto incompatibile con ogni idea di ambiente e di salvaguardia della biodiversità veneziana, rimasto per oltre trent’anni la più grande fonte di arricchimento per il Consorzio Venezia Nuova (concessionario dello Stato delle opere di salvaguardia della laguna). A fronte di una sistematica opera di distruzione continua e silenziosa di Venezia e del suo paesaggio, perpetrata da un turismo faticoso e da un flusso incessante di traghetti e grandi navi, il Mose dichiara guerra all’acqua. È il mare l’unico vero nemico da combattere senza esclusione di colpi. Naturalmente senza badare a spese.
“Il Mose procede dritto come un rullo compressore e tutto ciò che si frammette è maciullato, travolto; non esistono alternative né opposizioni né dibattito, semplicemente perché nel campo politico, delle imprese esecutrici e dei tecnici studiosi e progettisti, tutti sono stati coinvolti da destra a sinistra e dall’alto al basso, e quindi, come sempre, tutti hanno il loro utile”(Feiffer Cesare, Pensieri, parole e omissioni sull’architettura storica e il paesaggio, De Lettera WP edizioni, Milano, 2011, p. 216).
In trent’anni, dinanzi alle opposizioni ambientaliste (e non) mai nessuna incertezza da parte del Consorzio, mai un ripensamento, mai un dubbio tra le cui pieghe vedere un’alternativa, un’altra possibilità meno impattante per l’equilibrio gentile della laguna.Il Mose è per la gran parte costituito, oltre che da piccole opere mobili, da dighe fisse che chiudono definitivamente i tre canali dai quali entra e esce ogni sei ore la marea. Per poter fare spazio a queste dighe già da anni sono state
“scardinate pinete e dune sabbiose di centinaia di anni, rasi al suolo oasi e siti dove nidificavano uccelli e crescevano delicatissime piante, massacrati i moli lapidei ottocenteschi, interrati chilometri di laguna e di mare, realizzate isole e penisole su fondali di 15-18 metri, e saranno costruiti condomini in zone di parco vincolate per alloggiare i quattrocento operai manutentori, e molte altre opere ancora, il tutto in un ambiente vincolato e sotto tutela”(Feiffer Cesare, Pensieri, parole e omissioni sull’architettura storica e il paesaggio, De Lettera WP edizioni, Milano, 2011, p. 216).
Quali anticorpi culturali sono mancati per impedire di trattare Venezia con tanto violento accanimento?E proprio in nome della sua salvezza?
Venezia è un impasto di ordine e di disordine, di ripetizioni e di emergenze, perfetta nella sua imperfezione, forte nella sua fragilità. Venezia non rimane nel ricordo di chi la visita solo per lo splendore dei suoi monumenti e per la sua grande piazza, ma per il suo continuum urbano che scaturisce dalla sua straordinaria biodiversità storica. Per chi ne sa riconoscere i segni, essa è visibile nelle continue superfetazioni, negli innesti, nelle mutazioni evidenti, nelle ferite e nei contrasti. Tutti elementi costitutivi di quell’instabile equilibrio pittorico che sostanzia la bellezza di Venezia e appare ai più ingenui come un amalgama perfetto.Quelle immutabili quinte teatrali che sembrano progettate ad arte e dipinte dalla stessa mano e nello stesso periodo, e invece sono il manifesto visibile più inconfutabile di biodiversità generatrice. Là dove ogni edificio e ogni volume ha valore perché si affianca e convive con gli altri elementi, parte inscindibile di un’unità. Se potessimo tornare nella Venezia del millecinquecento ci sembrerebbe di arrivare una città così cosmopolita e vivace da fare sembrare la New York di oggi una piccola cittadina di provincia.Così nella natura. La laguna è oggi costituita da un centinaio di diverse isole, intersecate da centocinquanta rii e collegate da circa quattrocento ponti. La forma della città è strettamente dipendente dalla natura e dalla configurazione del terreno, dove i segni di naturalità e di artificialità si sono inscritti in maniera indelebile.Ha ragione Francesco Erbani quando dice che è la città del futuro, cresciuta su se stessa, con forti vincoli, senza possibilità di consumare altro suolo, che insegna cosa sia la manutenzione avendola praticata per secoli, multietnica per natura e multiculturale, senza le auto, con una prossimità costitutiva con la natura, fragile e fortissima (Erbani Francesco, Non è triste Venezia. Reportage narrativo da una città che deve ricominciare, Manni, San Cesario di Lecce, 2018).Nulla di tutto questo deve avere interessato decisori politici, ingegneri e tecnici. Quindici anni dopo il varo politico i lavori sono quasi conclusi: sono già state incernierate al fondale tre delle quattro dighe (tecnicamente: paratoie) che chiuderanno fuori dalla laguna il mare quando si alzerà troppo.Si pagano ancora oggi gli errori del passato, la scellerata decisione di fare arrivare in città le petroliere, allargando oltre misura il grande canale di accesso e aumentando cosi, in modo sproporzionato, la sua portata d’acqua.Non era fragile Venezia, è stata violata dall’azione dell’uomo (apertura di canali, accesso senza regole da parte di grandi navi, autorizzazione di metodi di pesca dannosi, introduzione di nuovi fanghi), in nome della sua salvaguardia. E il primo effetto è stato proprio l’alterazione di secoli di equilibri ecologici. Quanto siamo lontani da un’idea di progetto di compatibilità ambientale, quanto siamo lontani da un progetto di pacificazione con la natura e la storia.In questi giorni tutto appare ancora più tragicamente evidente.
Immagine in apertura di Fulvio Roiter