“The Flop Experiment”. Quando a un’idea geniale manca il design dell’idea

“The Flop Experiment”. Quando a un’idea geniale manca il design dell’idea

L’idea è geniale, la messa in opera lascia perplessi. Basta entrare a Palazzo Strozzi in questi mesi e trovarsi davanti due scivoli elicoidali, che si incrociano nel cortile per comprendere l’altissimo potenziale di spiazzamento della mostra “The Florence Experiment”, progettata dall’artista Carsten Höller e dallo scienziato Stefano Mancuso, e curata da Arturo Galansino. Che cosa ci fanno due scivoli di 20 metri dentro un palazzo rinascimentale? Ho portato con me cinquanta studenti di architettura per provare a capirlo.

L’evento è sperimentale.

Vuole fare incontrare arte, scienza, divertimento e spettacolo; trascende certamente l’idea tradizionale di mostra, in cui l’utente passivamente accoglie informazioni, dati, suggestioni scelte per lui. In questo caso, la posta è più alta. L’arte si mette al servizio di un’intuizione scientifica: le piante sentono, le piante provano emozioni, le piante interagiscono con il mondo esterno. Siamo noi ad avere ancora pochi strumenti per capirle e decodificarne i mutevoli e variegati linguaggi. E’ un’intuizione che nel tempo è diventata ricerca, studio, osservazione, grazie al lavoro del neurobiologo vegetale Stefano Mancuso. Scienziato italiano pieno di talento che per dare forza ai propri studi – in un Paese non sempre disponibile a esplorare nuovi campi di ricerca – si è dovuto inventare una nuova disciplina. Nuova almeno nel nostro panorama accademico.

L’esperimento farebbe leva su tre risorse che interagiscono: i visitatori, che sarebbero sottoposti a stimoli di varia natura (l’ebbrezza della discesa con lo scivolo, la visione di alcuni filmati horror e alcuni filmati comici che dovrebbero suscitare emozioni opposte); le piantine di fagiolo che verrebbero consegnate durante il giorno ad un campione di persone durante il percorso per essere sottoposte a osservazione scientifica; un team di scienziati che dovrebbe analizzare i parametri fotosintetici e le molecole emesse in reazione alla discesa e alle emozioni dei visitatori, confrontando poi i risultati con le piante che non hanno affrontato il percorso.

Peccato che le promesse dell’esperimento, vengano tradite dall’esperienza reale.

E’ completamente assente il design dell’esperienza. L’assenza di cartelli di spiegazione e di qualcuno in grado di spiegarti il senso del percorso, la distanza fisica tra gli scivoli e la sala delle proiezioni (sotterranea) disgregano il significato della mostra. E si ha la sensazione di attività sconnesse tra loro e astruse nel messaggio.

Le piantine vengono date solo ad un esiguo gruppo di persone (ma quando?). Se ne perde così il valore simbolico e emotivo per tutti gli altri visitatori che si trovano a scendere da uno scivolo senza comprenderne il motivo, a vedere spezzoni di film molto noti e non sempre così efficaci nel produrre emozioni significative (è così scontato che Checco Zalone faccia ridere uno straniero? O le comiche degli anni Trenta un ragazzino di oggi?), ad osservare scienziati in abito bianco dietro ad un bancone luminoso, peraltro inaccessibile, senza alcuna interazione. Il pubblico in autonomia deve provare a cogliere il senso di quello che sta facendo.

Non basta uno scivolo.

Siamo ormai tutti “consumatori di esperienze” esigenti. Dei miei cinquanta studenti, 22 sono riusciti a scendere con lo scivolo, poi l’arrivo di una leggera pioggia primaverile ha indotto il responsabile di Palazzo Strozzi a chiudere l’impianto. “Perché è un’opera d’arte, mica uno scivolo vero”: è l’argomento con cui ha provato maldestramente a convincere i rimanenti 28 studenti che non hanno potuto fare esperienza dello scivolo (dopo averlo peraltro già pagato). Singolare risposta! Un doppio scivolo a forma di tunnel parrebbe proprio adatto a proteggere le persone in caso di pioggia, bastava forse qualche piccolo accorgimento tecnico per sigillarlo e renderlo impermeabile all’acqua piovana. Con quello che sarà costato… il problema non deve essere la sigillatura.

La sensazione che rimane è quella di un esperimento mancato. Se è vero che le piante sentono, anche le persone sentono, vedono e ricordano. L’esperienza del visitatore non è oggetto di attenzione. Era difficile immaginare qualche modo per raccogliere anche le sue di emozioni? E’ noto che partecipare, sentirsi parte attiva, raccontare qualcosa di sé oppure portare a casa qualcosa di simbolico (una piantina, magari?) aiuta ad imprimere nella testa il valore di quanto si è vissuto. Solo 5 dei miei studenti hanno potuto portare a casa una minuscola piantina di fagiolo, di nessun valore economico, ma di altissimo valore simbolico. Se ne sono presi cura, nel corso del proseguo della visita fiorentina, con significativa dedizione. Perché non si è pensato di valorizzare questa naturale propensione alla cura da parte delle persone, come un’energia cognitiva e affettiva di particolare interesse scientifico? Un progetto di comunicazione così delicato avrebbe forse reso necessario un approccio ancora più interdisciplinare (psicologi, designer, comunicatori). Responsabilità che naturalmente non può essere addebitata né all’artista né al botanico.

E’ evidente che, tirando le somme dell’intera operazione, l’opera fuori contesto di Carsten Höller prevalga sul contenuto di ricerca e sugli immaginari vegetali. E’ la forma che soppianta il significato.  Una forma tanto forte e incisiva da rendere secondario, quando non decisamente inutile l’esperimento fiorentino. L’opera attira e suggestiona, diverte e compiace. E la scienza rimane nell’angolo, nel sottoscala dove in fondo è sempre stata. Perché avrebbe bisogno di elaborare linguaggi adatti, nuovi simboli, gesti adeguati. Non si può demandare alla tecnicalità e allo specialismo del linguaggio scientifico-accademico, come nei pochi poster appesi alle pareti, la comunicazione di contenuti sconosciuti al grande pubblico. Dovrebbero parlare gli spazi, attraverso un allestimento sensoriale adeguato, l’accessibilità a monitor interattivi in grado di coinvolgere i passanti anche frettolosi, la disponibilità di un personale addestrato non solo a trovare il guardaroba o il bagno, ma consapevole di essere parte di una esperienza semplice ma significativa, la parola dello staff di ricerca. Tutto passa dall’esperienza, anche una nuova cultura sensibile alle piante e alle loro emozioni. Tutto passa dalla capacità di suscitare nuovi racconti e nuovi immaginari.

La critica nasce dall’altissima aspettativa a cui Palazzo Strozzi ci ha abituati in questi anni.

Condividi il post