La città delle persone si crea puntando sull’immaterialità dell’architettura
L’assetto urbano del Novecento, orientato al business e alla velocità, sta fallendo. Per una metropoli a misura d’uomo è necessario partire da «bisogni, luoghi ed esperienze», che oggi devono essere la bussola del pensiero architettonico: «È qui che nel mio nuovo libro chiamo in causa le donne, che possono colmare l’attuale vuoto di immaginazione», racconta la professoressa di Urbanistica del PoliMi.
Conversazione con Elena Granata | Linkiesta | Fabrizio Fasanella
Tutti, o quasi, almeno una volta nella vita hanno giocato a Monopoli in una fredda serata invernale. In pochi, però, sono a conoscenza della sua vera origine, che si discosta dalla ricostruzione realizzata dal game designer americano Charles Darrow e poi commercializzata nel 1935. Il precursore del Monopoli si chiama “The Landlord’s Game”, registrato all’ufficio brevetti statunitense dalla sua inventrice, l’imprenditrice Elizabeth Magie Phillips, nel 1903. Quella versione, meno favorevole al monopolio e allo strapotere della ricchezza, era un vero e proprio strumento didattico in cui i giocatori potevano vincere unendo le forze, contrastando così la speculazione. Ma nell’immaginario collettivo la creazione del Monopoli è comunque attribuita a Charles Darrow, “smascherato” nel 1973 dal professore di economia Ralph Anspach. Questa storia è emblematica per due ragioni che si intrecciano tra loro. Da una parte conferma che, nonostante la cultura del profitto e della competizione, nelle grandi città può trionfare il senso di comunità. Dall’altra testimonia l’ingombrante presenza delle disuguaglianze di genere in tutti i campi culturali (ma non solo) del Novecento. Non è un caso che il quinto capitolo de “Il senso delle donne per la città” (Einaudi) – il nuovo libro di Elena Granata, professoressa di Urbanistica al Politecnico di Milano e vicepresidente della Scuola di economia civile (Sec) – termini proprio con il racconto delle origini del Monopoli. Il cuore del testo, e del problema inquadrato nelle sue pagine, è tutto lì. Il libro dell’architetta rivendica l’importanza della dimensione immateriale e sociale dell’architettura, che nel secolo scorso ha prodotto città a misura di banconota e non di essere vivente (uomini, animali, piante). Quel modello è stato cavalcato e abusato da professionisti uomini, perché le donne – è un dato di fatto – sono sempre state tenute ai margini dell’architettura: «Non potendo costruire hanno scritto. […] Sono state più giardiniere che progettiste, più pedagogiste che ingegnere», si legge nelle prime righe del volume. Ora che l’assetto urbano novecentesco è andato in crisi, stiamo sentendo la necessità di vivere in contesti capaci di dare più spazio alle relazioni, alla sicurezza, alla salute e alla creatività. Qui, spiega Elena Granata, entrano in gioco le donne, che per anni hanno sperimentato e praticato arti considerate (erroneamente) minori, ma essenziali per costruire la città del 2030 o del 2050, più resiliente alla crisi climatica e attenta ai diritti.“Il senso delle donne per la città” è un libro che spiega argomenti complicati in modo accessibile ed equilibrato, con un approccio didattico ma anche intimo e personale. Un testo che, senza perdere il contatto con l’attualità, illumina le storie di quelle che la docente del Politecnico di Milano definisce «pensatrici non ortodosse» dell’architettura: da Lina Bo Bardi a Jane Jacobs, da Sarah Robinson a Majora Carter. Tutte architette, urbaniste, giornaliste, pedagogiste, professoresse e designer che hanno gettato le basi per realizzare i contesti urbani in cui – per ragioni climatiche, etiche e sociali – dovremo per forza vivere. Parlare di città con Elena Granata è uno straordinario esercizio di educazione alla complessità e alla pervasività delle sfide urbanistiche del futuro, e questa intervista ne è la conferma. Siamo abituati ad associare l’architettura a risultati tangibili. Nell’introduzione del libro, però, scrivi che servono visioni che mettano al centro l’immateriale: «Dal dominio della forma alla forza dell’immateriale, dal primato dell’economia al primato dell’ecologia». Cosa intendi nello specifico con “immateriale”?«Gli architetti hanno costruito tantissimo, ma non hanno lasciato il segno dal punto di vista culturale. Questo è un problema per la nostra categoria, che tendenzialmente crede che le opere siano più importanti del pensiero. Abbiamo lasciato poco in termini di innovazione nel modo in cui abitiamo le città, tant’è vero che ancora oggi gran parte della bellezza sta nel passato e non nella contemporaneità. Nel libro mi soffermo sulle visioni e le relazioni. Sembrano cose astratte, e invece hanno a che fare con il muoversi con facilità e in sicurezza, la qualità della vita, il verde, gli spazi pubblici, i luoghi adatti all’apprendimento: è rimasto fuori tanto dalla produzione edilizia. Serve un pensiero pratico che parta però da bisogni, luoghi ed esperienze: ecco le tre parole che mi stanno a cuore».Perché continuiamo a sottovalutare le dimensioni sociali e umanistiche dell’architettura?«Perché abbiamo avuto cinquant’anni di primato dell’economia, del funzionamento e della velocità: tutti valori che oggi possiamo ascrivere a quella viralità tossica che si è ritrovata anche nel campo urbano. Con la pandemia e la crisi climatica questo assetto urbano è andato in crisi».È andato in crisi, ma in molti (forse troppi) casi è ancora praticato.«Sì, perché c’è un vuoto di immaginazione. Per questo chiamo in causa le donne. Essendo rimaste escluse dai campi delle decisioni, della gestione e del progetto, hanno avuto più tempo per dedicarsi a quelle cose ritenute meno essenziali: qualità di vita, interni, comfort, spazi pubblici, spazio del gioco, natura, fotografia. Nel libro chiamo in causa le migliori pensatrici del nostro tempo: sono quasi tutte donne contemporanee del tardo Novecento che avrebbero fatto da pilastri a una cultura più equilibrata sull’architettura. Ma sono state presto dimenticate».