Le nuove frontiere del progetto di territorio nei Paesi “emergenti”
Le nuove frontiere del progetto di territorio nei Paesi “emergenti”
Il tema è noto, dalle algide percentuali di Pil passando per le agenzie di rating internazionale: una manciata di Paesi, cosiddetti “emergenti”, si attesta alle soglie dello “sviluppo” arrivando a competere con le economie avanzate. Brasile/Russia/India/Cina sono raccolti nell’acronimo BRIC: Paesi che, ormai lontani dalle categorie ideologiche del ‘900 di “secondi” e “terzi mondi”, competono col “primo” elaborando -tra l’altro- una sorprendente quantità di progetti infrastrutturali, urbanistici e di territorio; e non solo dentro i propri confini nazionali. E’ forse il fenomeno più eloquente tra i tanti segnali che evidenziano il carattere multipolare di questo nuovo millennio.
CIVETS invece come acronimo, non ha ancora la stessa notorietà del suo antecessore BRIC: Colombia/Indonesia/Vietnam/Egitto/Turchia/Sudafrica. Altri Paesi ancora che, rilevati dalle solite agenzie in cerca di spazi sui quali investire, sarebbero quanto meno da tener d’occhio. Ed effettivamente, qualcuno guarda tali Paesi. In Italia lo fanno alcuni esponenti del nostro celebrato made in Italy, anche in questo caso acronimati con le suggestive “4A”. [Arredamento/Alimenti/Abbigliamento/Automobili. Sono questi i settori che formano lo stereotipo del Made in Italy. Aggiungere altre “A”, come Architettura non sarebbe male…]
Colombia dunque, capofila tra i Paesi appetibili per investimenti; favorita dalle attenzioni del capitale internazionale in cerca di nuove aree di espansione e, comunque, proiettata a nuove soglie di sviluppo. Il vertice delle Americhe a Cartagena (aprile 2012) fu accompagnato da una potente campagna mediatica, eloquente nella cover del magazine TIME che accompagna la scultorea immagine del presidente Santos con il titolo “Colombia comeback”. E sempre il presidente oramai uscente, già premio Nobel per la Pace qualche anno fa, commentando i rassicuranti dati su occupazione e crescita economica ipotizzava “l’ingresso della Colombia nel 2050 nei 30 paesi più influenti al mondo, sopra la Svizzera, Hong Kong, il Sudafrica”. Poco tempo fa, la prestigiosa Forbes indicava la ridente (e una volta famosa per i suo carteles del narcotrafico) Cali, tra le prime 10 città dove è meglio vivere al mondo. Quasi inutile rielencare l’ormai numerosa lista di premi internazionali dell’iconica Medellin, elevata quasi a simbolo e modello di come recuperare dall’inferno della violenza le città latinoamericane.
La nuova situazione politica e sociale generata dal processo di pace, fa intravedere i suoi primi frutti soprattutto nell’accessibilità: uscire ed entrare in Colombia è più facile. Ai colombiani è stata tolta le stigmate di paese a rischio, e L’Unione Europea non chiede più l’onta del Visto. L’ingresso di stranieri, è più che visibile, dalle archistar che firmano i luccicanti progetti delle sue metropoli, agli europei che in fuga dalla crisi cercano lavoro presso studi e università ai turisti, in due anni il turismo è letteralmente esploso, e non è difficile trovare i suoi celeberrimi paesaggi paesini e metropoli esotiche tra guide e in cima a liste di luoghi indicati dai social e dalle app.
Colombia allora, come interessante campo di analisi di quel che può succedere, in termini di trasformazioni, interessante laboratorio dei Paesi emergenti, che rimette in gioco tutta una serie di questioni. In primo luogo, la stessa definizione di sviluppo e, con essa, la geometria delle relazioni tra Paesi sviluppati e in Via di Sviluppo che se finora hanno mostrato soluzioni e capacità progettuale capaci di risposte interessanti nelle gravi situazioni urbane, adesso è nel territorio e nelle regioni che necessitano di attenzione. Un territorio spesso sconosciuto in termini di usi, di risorse, di “tenuta” rispetto ad uno sviluppo ed una antropizzazione che non ha precedenti nella Storia e che converrebbe abbandonare: la grandi operazioni della costruzione di canali come Panama, la costruzione di Brasilia, le imponenti dighe di Iguaçu tra Brasile e Paraguay non sono riferimenti di sviluppo validi nelle condizioni di rischio attuali, negli schemi economici e nelle relazioni politiche, nei processi di governance e nelle sinergie trasversali pubblico/privato che muovono i processi contemporanei. Rimane, retaggio dell’epoca coloniale e post-coloniale, la percezione delle enormi opportunità derivate da risorse naturali tuttora ingenti.
E sempre in tale prospettiva, bisogna distinguere tra i Paesi emergenti quei casi in cui civiltà millenarie sono innestate sul proprio territorio del quale hanno conoscenza e capacità d’interpretazione, come la Cina o l’India, e Paesi “giovani” come nel caso della regione latinoamericana, dove al predominio dei bacini naturali ricchi di risorse e opportunità corrisponde spesso, la scarsa esperienza di radicamento delle popolazioni residenti.
I grandi disastri naturali non sono altro che la dimostrazione di tale deficienza. Quanto più aumenta la pressione antropica, tanto più tali fenomeni (esondazioni, tornado, terremoti) evidenziano una costruzione del territorio realizzata mediante tipologie e supporti orientati a determinate priorità, come le reti di trasporto dai giacimenti minerari ai porti per l’Europa; o più semplicemente la rapida crescita di decine di centri urbani fondati in modo frettoloso dai conquistadores, per i quali erano sufficienti criteri e impressioni di adattabilità rispetto alle proprie condizioni ovviamente europee. Un livello di approssimazione che ha creato una delle più consistenti intelaiature urbane della storia, se è vero che in un paio di secoli sono state circa 500 le città sorte tra la California e la Tierra del Fuego. Oggi, alcuni di questi centri sono grandi metropoli, e la loro dimensione, in rapporto con certi disastrosi fenomeni naturali, evidenzia la loro ubicazione poco opportuna: altopiani oltre i duemila metri, zone vulcaniche e sismiche, ai bordi di delicati sistemi lacustri…
In tale scenario, è ancora la nozione di sviluppo quella che vale la pena approfondire, legata com’è a percezioni e conseguenti decisioni controverse; ed eventuali considerazioni riguardo a progetti di territorio non possono prescindere dai modelli di sviluppo da mettere in gioco. Nonostante la preponderanza della dimensione economica va rilevata, anche in Colombia, la presenza di sostanziosi fermenti culturali ormai in grado di offrire visioni e schemi più attenti ad accezioni più comprensive del termine e più adatta agli attuali scenari internazionali. Persistono tuttavia certe nozioni di sviluppo che ne associano il significato al bisogno/creazione d’infrastrutture che, rimangono ancorate nelle loro soluzioni tecniche e formali, a paradigmi e dispositivi piuttosto tradizionali, non affrontando quegli aspetti collaterali, d’impatto ambientale, sociale e culturale alla scala locale, che fanno poi la differenza. Solo nelle aree urbane possiamo rilevare alcune soluzioni più attente sia a livello formale che di gestione ad una serie di sperimentazioni e innovazioni originali ed efficaci.
Il territorio di area vasta però rimane scoperto da tali riflessioni, da una visione strategica: al massimo si pensa alla gestione della città-regione, come nel caso bogotano, elaborata in una serie di riflessioni e soluzioni ragionate in termini di gestione e di scelte condivise tra più enti e istituzioni (i municipi, le agenzie fornitrici di beni e servizi) che raccolgono, in una serie di mappe progettuali di indirizzo e direttive, alcune proiezioni di assetto generale.
Gli strumenti legislativi attuali non sembrano in grado di elaborare dei progetti di territorio adatti, specie per quelle regioni, in genere subalterne alle grandi aree in corso di consolidamento: la Costituzione colombiana rinnovata nel 1991 per favorire lo sviluppo delle realtà locali e il decentramento e una legge urbanistica strutturata in modo essenzialmente organico, non riescono da sole a favorire quel disegno e quella visione capaci di sottrarli alle povertà accumulate e a deficit sociali, economici e politici, oltre che allo sfruttamento endemico e perpetuato attraverso le nuove tendenze dell’economia globale. Si tratta, ovviamente, di problematiche molto complesse, intrecciate al carattere antropologico delle popolazioni, che riusciamo a intravvedere e riconoscere soprattutto per contrasti: immense metropoli e ambienti naturali sconfinati; ricchezze ostentate spavaldamente e speculari in un gioco di chiaroscuri, alle ampie sacche di povertà endemica; economie sommerse del quotidiano e risorse incomparabili costantemente in bilico tra autoritarismi o -quanto meno- derivazioni del caudillismo e tentativi di pratiche democratiche abbinate in genere a interessanti quanto fragili esercizi di governance.
Per gli urbanisti e per chi si occupa di territorio, un campo sterminato di osservazione, di riflessione, di (possibile) azione. Da queste considerazioni, almeno per la Colombia, emergono una serie di questioni di ordine culturale anzitutto: quali i paradigmi a sostegno dello sviluppo, quali i dispositivi oggi richiesti, nell’ipotesi di un progetto di territorio di ampio respiro, capace di “comprendere” in modo esaustivo e integrale zone ad alto valore ambientale e urbano, settori di alta qualità e regioni o aree depresse? Non è facile naturalmente dare un quadro esaustivo di una realtà così complessa, ma vale la pena analizzare tali fenomeni, che offrono al discorso urbanistico riflessioni importanti rispetto alla definizione di sviluppo e di pianificazione; di assetto di territorio capace di dire qualcosa di nuovo rispetto agli stereotipi con i quali registriamo quanto succede nei Paesi che fino a poco collocavamo nel “terzo mondo”, poi in “via di sviluppo”, e oggi rileviamo come “emergenti” e con i quali, sempre più spesso -e speriamo ancor di più-, siamo chiamati a interagire. Così come la maggior parte dei Paesi ex coloniali, la Colombia è stata anch’essa plasmata dal paradigma dello sviluppo declinato attraverso il Movimento Moderno. I grattacieli di Bogotá che la facevano “Manhattan delle Ande”; l’invidiabile metro di Medellin; la Barranquilla città-icona del Moderno aperta agli influssi, alle novità e alle mode esterne, grazie al suo porto strategico imperniato tra la foce del Magdalena e i Caraibi. Il Moderno ha declinato lo sviluppo, interpretando istanze e problematiche in un contenitore ideologico di alto spessore culturale, in grado di traghettarne poi i contenuti in programmi, tipologie, attrezzature, modelli di gestione. Un’esperienza sostanzialmente comune a tutta l’America Latina, pur diversificata a livello regionale con esperienze come quella brasiliana, nella quale il Moderno si è fatto addirittura interprete della stessa identità nazionale, a partire dalla forma della sua stessa capitale. In Colombia -come del resto nell’Area Andina dove esperienze precolombiane erano più consolidate-, le istanze del Moderno e la sua carica evocativa in termini di sviluppo è stata importante in certi momenti e taluni casi: Barranquilla, senza dubbio, Bogotá fino agli anni ’70. Col tempo è stata scardinata (o magari più semplicemente “rielaborata”) nelle soluzioni formali o di gestione urbanistica, proprio da quegli autori che avevano respirato il Moderno nelle stanze più raffinate, come all’atelier di Le Corbusier. Tramontata la fase dei grandi maestri e professionisti, si è affermata successivamente una generazione -ormai estesa- che s’impone per il livello di formazione accumulato, spesso arricchito con esperienze all’estero (e non solo e non sempre) in Europa o USA: succede allora che una generazione di architetti come Bonilla o Mazzanti, altri e altre ancora più giovani, sono in grado di produrre soluzioni efficaci e d’impatto dimostrando una capacità di comprensione equilibrata e critica del proprio contesto, nel quale riescono ad intervenire usando in modo convincente materiali, tecniche e processi, con un linguaggio proprio, pur innestate in un dibattito e in morfemi ormai internazionali. Si tratta di una generazione in costante contatto col resto del mondo, presso il quale lavora, spesso in partnership con i più grandi studi.
L’ora del territorio, oltre i paradigmi
Se tali riflessioni possono essere valide per Bogotá o Medellin e, per una specie d’onda d’urto, in quelle città intermedie sempre più al centro di investimenti e progetti, sono le regioni ancora marginalmente toccate dall’espansione urbana, il territorio vasto, quello che ancora soffrono. Regioni subalterne, sfruttate per le potenzialità economiche dovute a certi giacimenti o per l’abbondanza tropicale che ne facilita gli usi agricoli per coltivazioni lecite ed illecite. Qui, lontano dai processi culturali e politici della città, lo “sviluppo” è ancora mutuato con dispositivi e soluzioni che sembrano mascherarne gli intenti reali, pregiudicando e compromettendo vaste porzioni di territorio, articolato, così com’è, con il concetto di crescita e con esso, di sottosviluppo. E qui non si può non parlare, ancora una volta, delle risorse di cui il Paese gode: se una volta erano l’oro e gli smeraldi dell’Eldorado e poi la coca ciò che muoveva energie e sforzi, oggi sono le risorse del sottosuolo e del suolo, le fonti idriche e gli idrocarburi, la biodiversità nel suo patrimonio genetico.
L’esposizione ai disastri sempre più frequenti lascia il paradigma della “sostenibilità” come elemento portante in grado di coordinare il disegno progettuale che non di rado viene associata ad altrettanti assiomi anch’essi generalizzati che a mo’ di trittico muovono le politiche: la governance e la globalizzazione, cui viene associata ormai universalmente la necessaria declinazione local e pertanto riassunti nello slang glocal. Sostenibilità applicata a processi di gestione animati dalla governance, facilmente applicabili grazie alla globalizzazione: sembra essere questa la chiave di lettura e di azione per i progetti di territorio, che tuttavia fanno fatica a coniugarsi proprio con quei grandi progetti infrastrutturali di cui si parlava prima, esposti magari a Davos o in qualche grande ufficio di Dubai, ad una Biennale o un Seminario di urbanistica.
La costruzione del territorio sembra ancora innervarsi su grandi e piccole opere infrastrutturali, che vengono realizzate necessariamente a partire da esigenze ingegneristiche farcite da più o meno efficaci dosi di sostenibilità nelle accezioni ambientale e/o sociale, di partecipazione (o partnership) e, magari, o di certe quote di caratteri identitari capaci di proficui innesti nella scena internazionale.
Forse è da ripensare in una serie coerente di dispositivi progettuali, di gestione e di coordinamento capaci di leggere il territorio, certamente a partire dagli shock e crisi cui è stato sottoposto, come anche dalle istanze sociali e dalle possibili e probabili capacità politiche e culturali di coordinamento, ascoltando quelle che Hirschman, profondo conoscitore della realtà colombiana, definiva le peculiarità occulte.
Mentre ci si accinge a tali riflessioni, altri (imprese, istituzioni; Fondazioni, agenzie dei Paesi asiatici già abbondantemente citati) fanno. Come “riappropriarsi” del territorio, della sua pianificazione? Se dunque si parla di sostenibilità, questa andrebbe intesa nella sua accezione “tropicale” con tutte le necessarie implicazioni: improvvisi cambi climatici, ricchezza e varietà biologica, estrema diversità delle acque dolci negli spazi lagunari, lacustri, paludosi. Condizioni che definiscono un habitus e un habitat non sufficientemente esplorati, se i modelli insediativi ancora non sono molto distanti da quelli proposti in regioni molto lontane dalle fasce tropicali. Se la globalizzazione è il paradigma capace di registrare i flussi economici, e con loro le forme e i costumi sui quali interviene alla scala locale, allora va cercata esattamente a questa scala la forma di un complesso dialogo a doppia corda, locale-globale. Tra le righe della vasta letteratura di modelli, che va dai sistemi culturali territoriali ai distretti, vanno intercettati quei riferimenti ed esperienze sulla quale innestare progetti realizzabili-realmente, condivisibili e non solo adattati.
Macondo, città immaginaria (ma non troppo) delle novelle di Gabriel Garcia Marquez, sembra essere una valida mediazione culturale alle facili definizioni glocal. Se infine, si parla di governance come imprescindibile presupposto per implementare un progetto a scala territoriale, è importante assumere le conseguenze di una cultura –creola– che ha propri modi di organizzazione, gerarchie e forme di comunicazione; di criteri di partecipazione comunitaria soprattutto che vanno interpretate e codificate, rilevando e accogliendo le modalità d’esercizio, e spesso lontane dalle nostre tradizionali convinzioni riguardo all’uso democratico delle decisioni e delle azioni. Autorità e consenso, gestione dei processi di implementazione, formulazione delle stesse questioni, hanno percorsi e tempi diversi e la comprensione e l’accettazione eviterebbero noiose quanto costose impasse, derivate dall’applicazione di metodologie di gestione troppo spesso calate dall’alto.
Quali dunque i modelli di sviluppo ancora da considerare validi; quali atlanti consultare, quale letteratura o casi studio approfondire?
Un ruolo per competenze italiane?
Esenti da disastrose esperienze coloniali almeno in questa parte di mondo, l’Italia appare ben lontana dalla possibilità e tentazione di esportare modelli culturali strutturati, come nel caso francese, cosa che renderebbe inopportuna e poco credibile una pretesa della comunità scientifica nostrana, di interloquire.
L’Italia possiede una lunga esperienza di costruzione di paesaggio in un contesto territoriale spesso ostile per l’articolazione geografica o per la stessa condizione geologica che espone la penisola a frequenti “disastri” e costringe all’elaborazione di soluzioni complesse nei rapporti tra uso del territorio e infrastrutture, tra natura e artificio, tra ambiente urbano e “naturale”. Sia che si tratti di esperienze felici che di noti sfaceli da cui tuttavia, dovremmo pur trarre delle conclusioni a saldo positivo coscienti che saremmo ben lontani realisticamente e per una tradizionale componente collettiva del nostro carattere, dal celebrare/rivendicare una competenza o un’ipotetica eccellenza nel momento in cui dovessimo offrirla a terzi.
Si tratta, piuttosto, di mettere a sistema un complesso di saperi e di esperienze oggettive, capaci di comprendere ombre e contraddizioni, incongruenze e sfide in un processo che possa mettere a frutto e a sistema comunicabile con creatività e soluzioni puntuali che potrebbero far luce addirittura su quelle cose da non fare, dandole possibilità di redenzione.
L’Italia misura la propria competenza sulle doppie coordinate della prolungata esperienza storica di costruzione di “paesaggi” tutt’altro che stabili se calibrati sulla relativa giovinezza geologica di un territorio esposto continuamente a stress catastrofici: dai terremoti ai vulcani, dalle esondazioni ai cambi climatici. Una continua esposizione al rischio, come anche una rendita di posizione, non ancora compresa e avvertita come possibilità di estendere e offrire esperienze di pianificazione proprio ai Paesi Emergenti anch’essi sempre più spesso stressati da emergenze.
In tal senso, in un momento di crisi che oltre l’economia affonda le radici nei terreni della cultura e della stessa identità, andrebbe fatta una robusta azione negli ambienti accademici e professionali per la creazione di reti e spazi di ricerca e dialogo: per aprire e mettere in gioco tali considerazioni. D’altra parte, ancora resiste la percezione di una eccellenza del sapere italiano che troppo spesso ridotto a certe rendite di posizione assicurate, come nel caso del Restauro o dell’Archeologia.
Alcune “cose” che riguardano i nostri territori possono invece rappresentare validi scenari di dialogo. Prendiamo una delle zone più delicate, dell’Italia e della Colombia: il bacino del Po e quello del Rio Magdalena. Ambedue assi portanti dei rispettivi Paesi; il primo iperstrutturato dal lento lavoro di secoli di trasformazioni e il secondo oggetto costante di dibattiti e progetti e importanti investimenti strategici. I due bacini in una situazione di delicato equilibrio ambientale nelle rispettive strutture vallive, accomunati dal cambio costante del percorso delle acque e dall’esposizione di vasti territori all’esondazione come dalla contaminazione pesante degli affluenti che raccolgono gran parte degli scoli di parti consistenti dei rispettivi paesi. D’altro canto, la secolare costruzione del territorio padano è ben distante dagli esempi di arginature o canalizzazioni eseguite in modo semplificativo e banale nel bacino colombiano. L’uso lento nei secoli del bacino del Po, ne ha fatto un “paesaggio” coniugazione di habitat e di habitus, artificialmente delicato, potente nella sua identità fatta di un pachtwork di situazioni che mescolano continuamente natura e interventi umano. Francesco Puma, segretario dell’Autorità di bacino del Po, rilevava l’importanza di alcune linee guida che, con le considerazioni di carattere prettamente geografico/geologico/ambientale, potrebbero instaurare un dialogo fecondo con il corrispondente bacino colombiano, in temi sensibili come la qualità delle acque, la gestione della prevenzione, il carattere “patrimoniale” del bacino attraverso azioni e progetti orientati a un dialogo costruttivo e fattivo della popolazione con il proprio fiume, garantendo in maniera indiretta al suo controllo e come vera e propria risorsa allo sviluppo locale. E’ possibile che alcune piste di lavoro, esempi, considerazioni e suggestioni, possano essere messe in campo tra i due sistemi fluviali evidenziando quel fattore reciprocità che dovrebbe evitare spiacevoli percezioni di supposte superiorità delle soluzioni dell’uno rispetto all’altro.
Un territorio e un contesto quello colombiano, che potrebbe aver la forza di divenire metafora, in grado di formulare considerazioni dove poter misurare la questione del ruolo dell’architettura e di chi si occupa di territorio da quell’Italia che ne ha fornito, a volte in modo inconsapevole, i geni culturali, dal nome stesso del continente e di varie porzioni di esso, all’ispirazione delle città ideali –da quelle coloniali fondate con la Ley de Indias fino a Brasilia-, a quel concetto ispiratore di patrimonio naturale che dalle terre italiche è stato trapiantato nei primi parchi nazionali esistenti al mondo, recuperando chissà quelle belle intuizioni proprie di un Nuovo Mondo e di un modo nuovo di vivere il territorio.