Buone notizie: i dati sul turismo sono promettenti e cresceranno ancora col Giubileo; vedremo più punti ristoro, gazebo, gadgets e ricordini, minivan e navette per aeroporti, hotel e visite guidate, hotel, b&b, bazar, ristorantini e tanti altri servizi ancora.Cattive notizie: attorno alla stazione Termini, dietro Via Marsala o Via Giolitti, si prevedono assembramenti: in attesa di taxi, bus, treni; affaticati seduti e stesi nella hall, accartocciati tra tende e cartoni nei marciapiedi, tra carrelli e monopattini all’ombra del “dinosauro”, ai bordi della stazione.All’aumento dei turisti corrisponderà, in linea con i trend segnalati da report e mappe, la diminuzione degli abitanti della zona, razza ormai in via d’estinzione sprovvista com’è della protezione del proprio habitat, contrariamente a quanto succede con altre specie, non umane, presenti nella capitale.Notizie non ancora sufficientemente esatte: dentro e attorno alla Stazione Termini, dietro Via Marsala o Via Giolitti sarà la popolazione fluttuante la specie dominante, tra turisti ed erranti: persone senza fissa dimora, sanpapiers, cittadini di “serie B”, rifugiati; scartati: gli “invisibili” difficili da mappare (Lelo, Monni, Tomassi; 2021), sotto i riflettori delle cronache quando bisogna rendere visibile il disagio che alimenterà, a sua volta intolleranza, aggressioni, violenza e una preoccupante “situazione di insicurezza”.Tra buone e cattive notizie, qualcosa non torna. Cronache, dati e mappe continuano a denunciare tendenze che non girano nel senso desiderato.Cos’è davvero “invisibile”? Di quali sguardi abbiamo bisogno; dove abbassiamo e chiudiamo occhi?
Un problema mancato?
Se lo sguardo è distratto, sfocato, il problema forse sta negli strumenti attraverso i quali assumiamo informazioni e strutturiamo opinioni e strategie.Come professionisti e tecnici siamo abituati a guardare la realtà attraverso le lenti filtrate di dati e delle statistiche e, specie per gli urbanisti, attraverso mappe e planimetrie con una visione sulla realtà “zenitale”; dall’alto, distante da quanto avviene a livello del suolo, “orizzontalmente”; tra le storie vissute, nei profili variegati e complessi degli abitanti della città, nel loro interagire negli spazi e nel ritmo delle ore, giorni e notti, delle stagioni.Altri ancora, come spettatori, filtrano quello che viene rilanciato come news; del sentito dire, dell’opinione “pubblica” che di bocca in bocca, di tweet in tweet, deformano l’immagine originaria , tramutandola in immaginari. Il risultato è una lettura distorta, strabica; che confonde le questioni facendo apparire le sfide come un problema non centrato, mancato: viziato dalle cronache, allentato dai report, modelli e dati. E lo sguardo si abbassa, si ottura, si chiude alla lungimiranza, alla visione di altre possibilità , cosi come alla prossimità reale, concreta delle storie, delle vicende, ricche di ferite come anche di piccoli e grandi miracoli d’umanità.Il sintomo di questa resa dello sguardo è evidente quando, per risolvere le questioni ci si avvale della tecnica del “botta e risposta”: casi di aggressione? Aumentiamo i presidi militari. La piazza non è più sicura, friendly? Diamo il via al restyling di Piazza dei Cinquecento. Assistiamo a bolle di calore? Mettiamo qualche albero in più. Più indigenza e più freddo le notti d’inverno? Meno male che la Caritas con coperte e pasti caldi, c’è. Agire in queste modalità è, vale la pena dirlo subito, quanto di più ovvio e meno azzeccato si possa fare in situazioni complesse. Per attenuare livelli di insicurezza e precarietà prendiamo le distanze anche da accorgimenti che potrebbero essere attivati in modo anche semplice, attraverso illuminazione adeguata, percorsi visibili e privi di anfratti, accessibilità chiara e inclusiva, presidi sanitari e di protezione; con i supporti tecnologici esistenti di controllo e prevenzione. Tutte cose magari necessarie che comunque non sono ancora sufficienti: può mancare ancora qualcosa. Ce ne siamo accorti anni fa, in Ecuador, dopo un disastroso terremoto, quando abbiamo dovuto scartare quello che risultava più ovvio: ricostruire case. I colloqui con le comunità hanno dirottato la nostra attenzione ad esigenze e priorità ben diverse che non erano quelle di avere un tetto sulla testa ma un posto dove mettere i piedi, insieme, in una casa comune: era ripristinare lo spazio pubblico del vecchio campetto-piazza e, attorno ad esso, ben visibili, istallare i bagni; i luoghi più sensibili al pericolo di abusi dei loro bambini. Non avevamo centrato il problema, nascosto tra le piaghe più evidenti del disastro provocato dal terremoto: le soluzioni più ovvie non sono le più opportune. Sembra un secolo fa e nel frattempo, è arrivata la pandemia e con essa, abbiamo iniziato a ripensare lo spazio urbano, modulandolo nelle dimensioni temporali sotto l’ormai celebre slogan della città di 15 minuti, disegnata attraverso il raggio delle attività raggiungibili, in quella finestra temporale, attorno ad ipotetici fruitori/abitanti. Oltre la pianificazione dello spazio, abbiamo iniziato ad integrare quella dei tempi e dei servizi facilmente accessibili. La domanda a questo punto sarebbe spontanea: ma chi sono gli abitanti/fruitori? Chi risulterà avvantaggiato da quei 15 minuti, e per servirsi di cosa? Quale categoria potrebbe trarre vantaggio da la relativa prossimità a determinati servizi, e fare la differenza, a Termini? Gli ormai pochi, sparuti abitanti delle zone attorno alla stazione Termini? E chi tra loro? I pochi bambini, i tanti anziani, alcune coppie, single? I turisti addentrati, o pellegrini fai-da-te? Professionisti che viaggiano sull’alta velocità? I pendolari quotidiani? I volontari che di notte assistono i senzatetto, o gli stessi senzatetto? Chi ha bisogno di assistenza sanitaria? I rifugiati, le donne che in ore notturne e angoli poco frequentati cercano frettolosamente di attraversare i dintorni della stazione, recensiti sulle guide come una specie di territorio Hic sunt leones? Ognuna di queste tipologie avrà bisogno di cose diverse: presidi, ostelli, b&b, negozi di lusso o discount; alloggi in affitto, accessibilità urbana o luoghi appartati. Capire chi vive in un luogo, o chi “desideriamo” che lì ci viva, cambierà il volto, le priorità e il volto, di Termini e delle zone attorno a Via Marsala o Via Giolitti.Lo slogan che accompagna il modello della città dei 15 minuti è quello della prossimità. Papa Francesco già un decennio fa la sottolineava, argomentando che “non è più tollerabile la distanza” (Bergoglio, 2013) e, se c’è una prima distanza da coprire, è quella degli sguardi che dovrebbero iniziare ad incrociarsi: quelli “orizzontali” di chi vive e lavora nel contatto diretto tra ritmi e tempi di abitanti ed erranti dentro e attorno alla stazione e quelli “zenitali” di chi, nelle sedi appropriate, produce piani e soluzioni.Il problema è centrato quando la messa a fuoco dei punti di vista è compiuta, quando tutti insieme, professionisti, operatori, abitanti ed erranti, anziano un percorso condiviso, per accordare le diverse visioni, zenitali ed orizzontali che siano identificando quali sono le cose più opportune, meno “ovvie”, da fare.
L’Anima di Roma
Siamo alle soglie del Giubileo, occasione con la quale la città si ridà un tocco: tappando buche, ammodernando infrastrutture, riassettando luoghi emblematici.In gioco però c’è ben altro. Il Giubileo riaccende l’anima di Roma, da sempre crocevia tra abitanti (la razza in via d’estinzione, che ha bisogno di misure che ne tutelino la sopravvivenza) e i sempre più numerosi erranti: turisti, pellegrini, migranti dalle regioni limitrofe come da terre lontane. Roma è la casa di chi è in cerca di opportunità, riparo; speranza: magari farcita anche di una qualche fede, o alla ricerca di bricioli di carità. Era il 1700 quando a Roma nacque la “Congregazione per il sollievo dell’Alma della Città di Roma” (Curcio, 2008). Il suo obiettivo era, potremmo dire oggi, incrociare luoghi, problemi, popolazioni a rischio e opportunità, articolando pubblico e privato; valutando e scartando anche pratiche provenienti da altri modelli europei ritenuti “non proficuum in Urbe”. La location designata fu anche in quel frangente, un luogo di transito: lo scalo portuale di Ripa Grande e il grande complesso di San Michele. Un presidio di sicurezza, stipato di laboratori dove poveri ed erranti che lì albergavano potevano apprendere vari mestieri come soluzione concreta alla loro indigenza. L’azione del governo di allora -guarda caso anche in quel caso con le casse vuote-, si concentrò nell’inserimento di presidi sanitari, tenendo insieme progettualità e dignità, come testimoniano opere d’architettura come l’ospedale di San Gallicano. Del resto, l’urbanistica moderna è nata prima ancora che con zonizzazioni e standard, per la cura della salute del corpo malato di una città che vedeva crescere le sue membra e articolazioni con l’aumento esponenziale della sua popolazione e, dopo ospedali, orfanotrofi e lazzaretti, quelle che si attivarono furono altre operazioni chirurgiche invasive come i celebri sventramenti, effettuati mutilando delicati tessuti storici. Anche oggi si effettuano interventi simili attraverso asportazioni di ecchimosi, elementi cancerogeni, linfonodi: brandelli di tessuto urbano dismessi o addirittura popolazione; estromessa, sloggiata. A volte in modo apparentemente innocuo attraverso meccanismi di gentrificazione, sostituendo la tipologia degli abitanti precedenti. Altre volte le asportazioni sono più violente e laceranti, e si chiamano sgomberi. Operazioni poco efficaci dato che, semplicemente si spostano da un’altra parte cellule ancora vive: persone, storie, ferite, violenze, moltiplicando la situazione complicata e complessa, in altre parti e tessuti del corpo urbano. Ricorriamo ancora oggi alle metafore mediche con tecniche come quella dell’agopuntura urbana, per mezzo della quale si tenta di incidere in alcuni punti strategici, nevralgici, limitati; capaci di effetti benefici all’intero sistema. Possono essere efficaci sempre e quando siamo certi delle diagnosi, quando v’è certezza di aver centrato del vero problema.
La cura della vita urbana
Capire oggi cos’è proficuum in Urbe è fondamentale per dare sollievo ad abitanti, erranti e pure ai governanti. Siamo in un momento in cui, come si diceva nella recente Biennale dello Spazio Pubblico celebrata recentemente a Roma, "stiamo passando dalla pianificazione dello spazio urbano a quella della vita urbana". Stiamo probabilmente arrivando a centrare il problema, che non è pianificare spazi e tempi di possibili luoghi di cura, ma prenderci cura in modo integrale della vita urbana, di noi tutti. Tutte le grandi metropoli sono davanti a sfide impossibili da gestire in modo settoriale e l’aumento esponenziale di popolazione in movimento è l’epidermide di problemi molto più profondi. Ho davanti le immagini di decine di città che ho avuto modo di conoscere da vicino: assiepati sui nomi delle star dell’entartainmnt della Walk Of Fame a Hollywood, nei parchi pubblici delle monumentali avenidas e parchi di San Paolo, all’ombra delle poderose infrastrutture della metropolitana di Bangkok, negli angoli dei quartieri abitati dalle comunità di origine turca a Berlino, si ripete uno stesso nuovo e inquietante paesaggio urbano fatto di alloggi precari di cartoni e tende, di masse di popolazione migrante, mobile; sfuggita a pandemie, disastri ambientali e sociali, conflitti, sfrattata, licenziata, sloggiata; in cerca di sollievo. Mai come in questo momento storico l’umanità si è messa in movimento, con cifre esorbitanti (Khanna, 2020). Sono gli erranti, la nuova specie emergente della razza umana, che cambierà leggi, regole, comportamenti, pratiche, frontiere, culture, politiche. Ma non sono loro quelli che stanno “errando”, sbagliando: se un errore c’è, va individuato in chi “non vede” la dimensione del fenomeno e non ne trae le conseguenze. Succede allora che le città, sprovviste di soluzioni, si confrontano tra loro, si guardano, cercano vaccini e anticorpi, si attivano alla ricerca delle migliori pratiche; prendono esempio l’una dall’altra. E conviene guardarle tutte le esperienze, non solo quelle che propongono buone pratiche dall’alto di standard oggettivamente migliori. Conviene, dare un’occhiata anche ad altre latitudini ed esperienze, magari anche più “esagerate”. Roma, si è messa in rete, è parte del gruppo delle C40 Cities, cui fanno parte anche Bogotà e Medellin, che conosco molto da vicino, avendoci vissuto, lavorato e dove ancora svolgo attività.Nella capitale colombiana, l’attuale governo della città è molto esposto sul tema del “cuidado” -della cura- e già prima della pandemia aveva intrapreso progetti che hanno avuto come caratteristica lo sguardo sinottico tra quello degli uffici della “Secretaria de Habitat” che si occupa di interventi urbanistici, e quello degli abitanti. Uno degli ultimi interventi è stato in un settore nel cuore della capitale colombiana, tra i più difficili e delicati, molto simile alla zona attorno a Termini, caratterizzato da povertà e miseria strutturale tra persone senza fissa dimora, esclusi per ragioni sociali e culturali (discendenti afro, indigeni) o migranti dal vicino Venezuela. Obiettivo dell’intervento era iniettare, nel corpo urbano le “manzanas del cuidado” (quartieri della cura, alla violenza in particolare di genere). Le mappe del progetto colpiscono per la meticolosità descrittiva, edificio per edificio come per per la cura delle caratteristiche ambientali e a relativi rischi, alle sfide ecologiche. Ma quello che fa la differenza è il report della popolazione, identificata -verrebbe da dire- quasi per nome. Si conoscono non solo per genere, provenienza culturale o età: si sa quanti sono in grado di camminare o correre; quanti sono autonomi o disabili, con difficoltà psicomotorie o sensoriali e via dicendo. Quante informazioni che risulterebbero molto utili per disegnare 15 minuti di servizi secondo la diversità dei profili... Il disegno urbano che ne è risultato si è concentrato su una striscia di strada con la collaborazione di abitanti, amministrazione, enti e associazioni. Le tecniche e dispositivi adottati, semplici e conosciuti: arredo urbano accessibile, segnalizzazioni, percorsi facilitati, illuminazione appropriata.Non è stata la panacea di tutti i mali e Bogotà ha ancora mille problemi da affrontare, con i suoi 10 milioni di abitanti che continuano a crescere continuamente.Un collega della Secretaria del Habitat, per illustrarmi la zona sulla quale stava lavorando, mi raccontava le storie della gente del posto. Ne conosceva dettagli, abitudini e necessità; materiale prezioso per le azioni conseguenti: norme, disposizioni, progetti che tenevano insieme oltre la divisione di attività, spazi e tempi, quello che chiamerei “il sistema di vita” di quella gente. Anche a Medellin ho potuto vivere e vedere da vicino come e perché questa città, sull’orlo dell’abisso per una violenza ai margini della guerra civile, è potuta salire sul podio delle metropoli più innovatrici e intraprendenti del pianeta e credo che il buon esito sia stato, anche in quel caso, grazie al paziente lavoro dello sguardo sinottico sulla realtà tra chi si occupava della pianificazione e chi operava o viveva nel territorio. E’ stata questa la prima operazione dei tecnici e operatori; il tempo dell’urbanistica impiegati per assumere punti di vista di chi quel territorio lo viveva già. Sopralluoghi, riunioni e workshop con emarginati e leader di pandillas, mamme, anziani e disabili sono stati lo strumento strategico per i successivi progetti; piccoli e grandi accorgimenti strategici, lungimiranti e puntuali allo stesso tempo: un ponte per unire quartieri in conflitto, piazzole per eventi culturali dove poter sviluppare la socialità e creatività di adolescenti spesso di bande rivali; angoli per giochi per bambini e anziani individuati assieme alle mamme dei quartieri dove era sicuro che i sicari non avrebbero mai sparato; e ancora parchi e biblioteche istallate nei punti strategici dove, per la prima volta in una città che era il manifesto della diseguaglianza e segregazione sociale, si sarebbero potuti incontrare giovani di estrazioni e condizioni economiche opposte; e gli abitanti coinvolti nella gestione di questi nuovi “capitali spaziali” devoluti per “assolvere un debito strutturale e accumulato ai poveri”, nelle parole dell’allora giovane sindaco Fajardo. Un cambio del punto di vista culturale, prima ancora che strategico. I poveri non erano nell’errore, andavano piuttosto rimorsati. L’effetto concreto e immediato furono le operazioni urbane conseguenti: la migliore architettura e le relative operazioni urbanistiche, sarebbero andate nelle periferie, non nel “centro”.
Rigenerare l’inclusione. Rendere visibile l’invisibile.
Prenderci cura delle zone attorno a Termini tra le vie Marsala e Giolitti, (1) attraverso una strategia di rigenerazione delle relazioni (Granata, 2022) tra i diversi punti di vista di operatori, abitanti, erranti, istituzioni in modo continuato, strutturato, per combattere lo strabismo distratto che impedisce di (2) cogliere, centrare quali sono le sfide e le opportunità per iniziare percorsi che identifichino tra le tante possibili (3) soluzioni allo stesso tempo semplici e lungimiranti, efficaci nel risolvere non solo uno dei problemi -la sicurezza- e fare la differenza di qualità di vita per chi vive o attraversa Termini: cosa ne facciamo di questo luogo? Potrà essere un hub privilegiato col quale Roma intende presentare il suo modello di “città come un habitat”, dove l’inclusione è di casa assieme ai diritti, per poter così meritare la vetrina mondiale dell’Expo? Sarà quello che vedranno in un evento molto più prossimo e certo, i turisti e pellegrini che verranno per accedere alle indulgenze giubilari, come esempio di remissione, di “condono”, di pecche sociali e urbanistiche?
Bibliografia di riferimento:Bergoglio, Jorge Maria. Dio nella città. San Paolo, 2013.Curcio, Giovanna. La città del Settecento. Laterza, 2008Granata, Elena. Placemaker, gli inventori dei luoghi che abiteremo. Einaudi, 2022Lelo k, Manni S., Tomassi F. Le sette Rome. La capitale delle disuguaglianze raccontata in 29 mappe. Donzelli, 2021Khanna, Parag. Il Movimento del Mondo. Fazi, 2020