La cura, dalle periferie.

Storie di medicine alternative allo sviluppo “urbano”

La città, un abito fuori misura?

Non facciamo molta attenzione apprezzando le piazze, strade ed edifici dei nostri centri storici a misura d’uomo al fatto che sono tali perché costruiti secondo sistemi di misurazione basate su braccia, pollici e piedi, secondo un sistema di proporzioni che prediligevano la vista a colpo d’occhio; e che ci piacciono proprio per la loro una dimensione domestica. A volte ci sfuggono, abituati come siamo ad altre dimensioni, quei fuori scala che erano edificati per funzioni “eccezionali”: cattedrali, palazzi signorili e istituzionali sicuramente, ma anche conventi, confraternite, lazzaretti e Spedali cui difficilmente oggi il nostro occhio posa lo sguardo; vuoi perché spesso hanno cambiato destinazione, vuoi perché (ed è forse la ragione principale) la loro grammatica è composta dagli stessi codici, materiali e stili, ordini e capitelli del resto del tessuto urbano: dignitosa, gentile. Questi edifici, smisuratamente grandi, erano quelli preposti alla salute di quel corpo di abitanti ancora tutto sommato gestibile, nelle dimensioni misurate e circoscritte della città murata (europea) continuamente alle prese con pandemie, povertà e miseria. Di colpo, improvvisa, questa città ha spalancato le porte e le mura e, nell’impulso inebriante della rivoluzione industriale, s’è generato in pochissimo tempo quel modo "moderno” di stare e vivere in questo mondo, e ci ritroviamo anche noi adesso in un corpo-città cresciuto di nuovi tessuti, pezzi, brandelli e superfetazioni che hanno scalzato il disegno composto della città antropomorfica. Quegli edifici smisurati e preposti alla sua salute invece, sono risultati piccoli e inadeguati alle nuove sfide igieniche, sanitarie e sociali. Anche loro veste stilistica gentile, fatta secondo le linee e gli stili dell’architettura del periodo sono spariti. S’è dovuta inventare anche una nuova disciplina capace di prendersi cura di questo corpo-città ormai informe. Tra i primi a capire le nuove necessità un ingegnere che, dovendo spalmare sul territorio oltre le vecchie mura una nuova massa di costruzioni e abitanti, ha iniziato a porsi delle domande di fondo: che senso e struttura dare a questo “mare magnum fatto di persone, cose, interessi” che “non possiamo più continuare a chiamare città, come un tempo”? Si chiamava Ildefonso Cerdà ed è stato l’autore di quella teoria generale che battezza con il termine di urbanizaciòn (Cerdà, 1867). Inizia a prendere forma e spessore quella nuova disciplina che avrebbe dovuto guardare ad un territorio dove difficilmente abitanti venuti da chissà dove avrebbero potuto comporli a “cittadini” raccolti come nelle vecchie mura. Una sfida, che Cerdà ha ben risolto nell’applicazione pratica che accompagnava quel suo manuale attraverso il piano per l’ampliamento di Barcellona, smussando gli angoli del piano, omologato nelle forme di una scacchiera tendenzialmente estendibile all’infinito. Con un semplice accorgimento ha così ottenuto ad ogni angolo la ripetizione di “piazzette” che oggi definiremmo di prossimità; Un prezioso spazio pubblico che si integrava con i cortili dedicati al verde (oggi purtroppo divorati dai volumi di nuovi edifici) che oltre a luce e aria, assicuravano altrettanti spazi di prossimità in una dinamica di relazioni più intime. Quegli spazi continuano a cambiare, ancora oggi, sono flessibili e aggiornati alle nuove esigenze: la salute integrale degli abitanti reclama oggi prossimità di relazioni e diversità di uso degli spazi, e non è un caso che la ricetta vincente ormai dilagante (forse in modo fin troppo superficiale) sia lo slogan della “la città dei 15 minuti”; che nelle intenzioni dovrebbe poter assicurare servizi e qualità di rapporti misurati sui tempi a misura d’uomo, oltre che sugli spazi. Come nelle antiche città, come nelle piazzette di Barcellona. Lo abbiamo potuto verificare nei tempi della pandemia, che hanno riproposto in maniera potente, il ruolo delle discipline e tra queste, di quelle che hanno visto nascere la città così come la conosciamo oggi: l’urbanistica appunto.

La medicina urbanistica

E bisogna dirlo subito, questa disciplina, ha molto a che fare con il tema della salute: se chiedo ai miei studenti che frequentano il primo corso dedicato all’urbanistica a cosa associano questo termine, quello che menzionano sono strade, fognature, infrastrutture, standard, codici. Basta cambiare i termini dell’elenco dei miei studenti: la cura di un corpo sempre più complesso in flussi e metabolismi ha bisogno di bypass, drenaggi, apparati digerenti, protesi: infrastrutture per decongestionare il traffico arterioso, sistemi per lo smaltimento dei sempre più ingombranti rifiuti, salutari macchie verdi per dare respiro ai tessuti densi di cemento e asfalto; e di tanti medicinali prescrittivi: standard e norme associati a generosi dosi di vincoli e divieti che si sono sviluppate al passo con l’evoluzione delle tecniche anestetiche e relative possibilità di interventi chirurgici nel corpo-urbano- ormai sempre più attanagliato da incrostazioni ed escrescenze che toglievano il respiro ai tessuti vitali (il centro). Il corpo-cavia sul quale sperimentare tali operazioni non è stato quello di Barcellona ma quello di Parigi, tagliato e inciso con una gigantesca operazione che a metà dell’800 vide sostituire i vecchi quartieri medievali con ampi boulevard affiancati da nuovi condomini, conformi alle esigenze dell’emergente classe borghese che reclamava caffè all’aperto al piano terra e appartamenti nei piani superiori. Le conosciamo e molto bene queste operazioni chirurgiche invasive nelle piccole e grandi città italiane, attraverso il termine tecnico più frequentemente usato: sventramento. Quello più famoso prende il nome dal ventre di Napoli (i suoi Bassi) descritto dalla fine penna di Matilde Serao. Farà storia quell’operazione che, per debellare ricorrenti pandemie di colera, grazie ad una legge ad hoc, ha espropriato, progettato, costruito e rivenduto un intero pezzo di città, la sua pancia estesa tra le arterie ferroviarie della stazione, il cuore pulsante attorno a Piazza Plebiscito, il polmone d’aria del porto aperto sul famoso golfo. L’incisione chirurgica, perfetta, non a caso rimane famosa come “Rettifilo”, l’attuale Corso Umberto. Quella legge farà da laboratorio per costruire l’intera impalcatura di quella che sarà la Legge che detterà le regole del “fare urbanistica” (piani regolatori, espropri, stare, standard, rendite) fino alla fine del secolo XX nel nostro Paese. Sembra storia e acqua passata, ma ancora oggi non mancano esperienze del genere. Qualche anno fa successe nel cuore di Bogotà, dove fu raso al suolo e sostituito da un “parco” un intero quartiere malfamato. L’intervento tuttora in corso nel settore di Hell’s Kitchen di New York (per avere l’onore di chiamarsi “cucina del Diavolo” doveva averne di ragioni) sembra invece meno invasivo, in una città che vede continuamente deformare la propria fisionomia nel celebrato (e sempre alterato) skyline: chissà, forse perché oggi si è più propensi ad interventi chirurgici estetici per riqualificare tessuti slabbrati e invecchiati anche se, tra le controindicazioni, non sempre viene segnalata la “gentrification”; l’espulsione della popolazione originaria.

Abitudini, su misura

Non è questa la storia che vogliamo raccontare: di tecniche e medicinali, protesi e prescrizioni; neanche di piani e di urbanistica. In Colombia certe comunità indigene ancora si chiedono come mai i piani urbanistici si chiamino di “Ordenamiento Territorial” visto che, dal loro punto di vista, il territorio in realtà era già ordinato di suo con regole, leggi e armonie. Semmai saremmo noi che dovremmo riordinare idee, comportamenti e abitudini per rientrare in quel (eco) sistema. D‘altra parte, bisogna pur dire che anche la scienza medica ha fatto passi avanti e guarda sempre più al benessere integrale, dato da più fattori sistemici che non possono non tener conto dell’ambiente dove si è cresciuti: del cibo, dell’aria, delle relazioni; di quelle cose, interessi e persone direbbe Cerdà, connesse o da riconnettere attraverso habitus e abitudini. Conviene allora raccontare altre storie, di quelle che lasciano speranza; la prima medicina utile per una salute che va ben oltre quella di un “benessere” che ancora deve molto all’idea moderna (e desueta) che tutto deve sempre andare secondo i canoni dell’efficienza di corpi prestanti come macchine; che si tratti di quelli della città o di in reali carne e ossa. Col tempo abbiamo compreso che non si può guardare esclusivamente ai malanni che attaccano la dimensione fisica: così come le membra e i tessuti organici, anche quelli della città, i loro pezzi manufatti sono stati scannerizzasti e sono oggetto di radiografie e TAC nei filacciamenti, sinapsi, e nervature. E allora, possiamo vedere che oltre la campitura verde omogenea spalmata su di un piano o di una mappa, esiste un sottosuolo, vi sono comportamenti legati dalle condizioni atmosferiche, alla qualità dell’aria, e che da queste dipende la vita vegetale e animale che lì interagisce. Che i fiumi non sono delle strisce azzurre, ma contengono pulviscolo, residui, elementi. E cambiano, dipendendo dalla tessitura del loro letto. Sono anche più salati, se vieni alla foce. Tanto più in periodo di secca. Qualsiasi intervento “incisivo”, qualsiasi azione che si tratti di tracciare una strada, piazzare un condominio, elevare un terrapieno o persino fare un parco, va calcolato sulle cifre di un benessere integrale del corpo inteso come habitat e non solamente di un territorio mappabile secondo linee, codici, standard, zonizzazioni che dovrebbe lasciare qualche minimo sospetto sull’opportunità di dolorosi interventi invasivi di carattere chirurgico. Non a caso, sta diventando molto più conveniente, efficace e replicabile intercettare quei punti critici dove intervenire in modo incisivo con tecniche alternative, magari anche esotiche, come quelle di “agopuntura” urbana. Ne contiamo ormai a migliaia gli interventi che, ad ogni latitudine, hanno trasformato piccole strade e piazze. Interventi definiti detonanti tanto che ne scatenano, in altre parti del copro-città altrettanti. A volte possono sembrare gradevoli e semplicistici, per l’uso di dispositivi semplici: una verniciata agli asfalti, un nuovo playground o qualche panchina ben posta e cambia la struttura più intima della città, a partire dal comportamento e le abitudini degli abitanti favorendo prossimità di vicinato, vincoli di solidarietà nella cura di uno spazio comune.A Bogotà l’ufficio che tratta interventi di questo tipo non è quello di pianificazione: si chiama “Secretaria del Habitat”. Uno degli ultimi progetti era quello degli “Eco-barrios”, quartieri che, perseguendo certi obiettivi, avrebbero potuto ottenere un “certificato” di buona salute potremmo dire: per tale prestanza avrebbe fatto risparmiare (ai suoi abitanti) alcune imposte. Non si trattava di dare prescrizioni quanto di incentivare: il riciclo dei rifiuti, l’inserimento di pannelli solari, il riuso delle acque piovane. Piccoli accorgimenti con un obiettivo superiore, non esclusivamente privato o particolare, dato che il corso dell’intero quartiere, oltre l’evidente sensibilità allo spreco delle risorse e ad una maggiore qualità ambientale, avrebbe dovuto contribuire ad una ulteriore qualità nell’uso dello spazio pubblico, nell’incremento del commercio al dettaglio, dell’uso di mezzi non inquinanti a partire dalle bici. Sono operazioni che non si fanno con tecniche, anche con processi; che vanno ben oltre il disegno e ci suggeriscono che la buona salute si dà anzitutto con sane abitudini, quelle che il corpo degli abitanti è in grado di attivare, a partire dal proprio habitat-quartiere.

Storie salutari

Tra le case, accade la città (Granata, 2022). E tra le tante storie può accadere che si intercettino quelle che segnalano sintomi salutari; che dicono che sì, a volte gli enzimi stimolanti non mancano, e non solo a Bogotà. E che non servono solo le prescrizioni, per risolvere malanni che forse hanno radici e origini ben più profonde. È famosa l’Università di Berkeley, per il suo Istituto di Urban Planning che ha partorito molto del pensiero sulla città nell’ultimo squarcio del secolo passato. Dopo la pandemia, il direttore di uno dei corsi in “Urbanistica e salute pubblica”, ha dedicato una precisa lista di prescrizioni alle nazioni del Sud del Mondo “meno preparati alla pandemia” (Corburn, 2019) nel procurarsi bisogni di base come acqua, servizi igienici, fognature, drenaggio, raccolta dei rifiuti e alloggi sicuri così come problemi sociali endemici, come violenza e sovraffollamento. Le conseguenti raccomandazioni riguardavano l’istituzione di comitati di pianificazione di emergenza per gli insediamenti informali, moratorie sugli sgomberi; la formazione e l’impiego di operatori sanitari della comunità; il soddisfacimento degli standard per l’acqua e per l’igiene; l’assistenza alimentare, tra le altre cose. Mentre a Berkeley si elencavano consigli al Sud del mondo, bastava “scendere” di 500 km, per arrivare nella stessa California nei dintorni delle strade di Hollywood: problemi igienici, scarsità d’acqua e carenza nell’assistenza sanitaria erano lì, come non se ne vedevano dai tempi della grande crisi del ’29. I numeri non rendono l’esperienza diretta. Migliaia e migliaia di persone affollano di nuove storie, tra un quartiere e l’altro un’altra storia, nella città dedicata agli Angeli e alle star. Una sorta di città mobile tra ville e grattacieli si monta e smonta tra il giorno e la notte; fatta di insegnanti ed ex impiegati, di giovani arrivati qui per un sogno o una speranza e rimasti senza un tetto; soprattutto, tanti reduci delle varie recenti guerre più o meno ufficiali che autobus pagati dai vicini Stati, del Nevada o Dakota trasportano lì, gratuitamente. Sembrano zombie, sostano sui nomi famosi prodotti dalla macchina dell’entertainment, lungo la Walk of Fame e sempre più numerosi affollano le strade della vicina Skid Row, la più estesa città di homeless del paese a Stelle e Strisce. Le prescrizioni di Berkeley, ottime raccomandazioni, non sono sufficienti. Ci vogliono anticorpi robusti, che talvolta pagano con la vita una tale guerra, come nel recente caso del vescovo O’Donnel, ausiliare della diocesi che non si occupava esattamente (o esclusivamente) di carità per “poveri senzatetto”, comunque supportati da decine di istituzioni che vanno dalle più classiche dedite ad attività filantropiche fino alla più commerciale Starbucks, che “tollera” in cambio di una discrezione pattuita verso i suoi clienti, il poter ritemprarsi nei loro locali in un tempo stabilito. No, O’Donnell “nella Città degli Angeli era uno di quelli più esemplari”; parole dell’ex sindaco. A Los Angeles curava quei mali che si insinuano in ogni piega dei nostri tessuti, in una struttura filamentosa che lega disagio di esclusi, immigrati, malessere sociale, gang criminali. Filamenti che si irrobustiscono tra i tessuti in modo pervasivo, diffuso, sottile, strisciante. E che va conosciuto, ascoltato, amato, curato, membro per membro, anima per anima, corpo per corpo.

Medellin, un'iniezione continua di...

Non per forza ci deve scappare il morto o il martire nelle storie di cura, anzi.A volte, come a Medellin le vittime vengono risparmiate, grazie ad interventi come quelli che, in questa città che era al top mondiale per numero di omicidi, è adesso modello da seguire. La storia è ormai ventennale, ma sempre attuale, come una di quelle serie che di stagione in stagione, hanno cose nuove per far stupire l’appassionato pubblico e vale la pena raccontarla, specie quando la location è la sua periferia più oscura, tragica e violenta che diviene meta di turisti curiosi tra piccoli shop e locali popolari, come fossimo a Trastevere.La Comuna 13, “quartiere” (attualmente circa 190.000 abitanti) rimasto ostaggio fino agli inizi di questo secolo del fuoco incrociato dei narcos divisi tra gruppi guerriglieri e paramilitari ed esercito ne ha visti di morti, e a centinaia. Fu singolare quel giorno in cui la popolazione, disperata, decise di salire sui tetti delle proprie e svoltolando fazzoletti bianchi implorò un cessate il fuoco, letteralmente dal basso: il corpo sociale ormai moribondo reclamava pace, forse quantomeno un’estrema unzione. E la ottenne grazie agli anticorpi sani dell’intera città che riuscirono nel 2004 ad immettere nel governo di Medellin un sindaco (ed un gruppo) capace di invertire la rotta, di fermare le metastasi che stavano corrodendo ogni tessuto delle vista economica, sociale, culturale. La strategia covava e si alimentava da tempo tra le aule delle università, tra le menti fresche di una nuova generazione, tra i cuori di chi, nelle cellule vive della popolazione, si è immediatamente attivata al cambio, attraverso mille rivoli di attività. L’intervento infrastrutturale fu certo potente nelle membra mutilate; attento a ricucire, più che sventrare: scale mobili, centri educativi, biblioteche spazi pubblici e le tanto celebri cabinovie.Ma non bastavano. È singolare il caso della biblioteca nel Barrio Santo Domingo, quasi l’icona della rinascita della città, realizzata con concorso pubblico da uno degli architetti più famosi in Colombia e ormai, nel mondo. La sua peculiare forma, come fosse un diamante che emerge scolpito tra le case popolari aggrappate ad una ripida montagna, non esiste più: rimane un triste scheletro di quella struttura, essendo il suo rivestimento interamente rovinato per un’istallazione al momento della sua costruzione probabilmente non curata nei dettagli. Ma l’idea, il progetto, il sogno e la cura (l’educazione come iniezione positiva e risolutiva alla violenza e alla povertà che si tramandava rigenerando continuamente nuove cellule ”maligne”) permane e pervade, attiva, nel tessuto dei suoi abitanti che, non perdendosi d’animo, hanno diffuso il sapere (i libri) custodito nell’involucro architettonico di quella biblioteca ormai inesistente tra le case, nelle loro stanze, dove era possibile; segno che la salute non è data da questi pur necessari interventi strutturali, fisici, architettonici e “urbanistici”: non bastano. La buona salute si riverbera. Torniamo alla Comuna 13: lì una stradina pedonale a mezza costa appena istallata percorre l’intera zona. non sventra nulla, anzi: ricuce. Non tanto il tessuto fisico quanto quello sociale, attraverso il linguaggio espressivo dei graffiti che accompagnano il suo percorso: il lungo Tour che si snoda dei disegni tra le case-baracche (sempre più curate e dignitose), svela l’anima risanata di questa gente finalmente in pace; che “sta bene” perché può narrare ad altri la propria storia tragica ma a lieto fine. Qui si impara che la cura della città è la cura dei suoi abitanti, delle loro anime, oltre che della giusta dignità ai corpi dissanguati per davvero che, sepolti a centinaia di metri di distanza possono anch’essi, chissà, riposare in pace. Medellin è questo, sorpresa continua; nella sua capacità di iniettarsi buone dosi. Anzitutto del primo antidoto; quello della speranza e creatività che continua ad iniettare anche a chi vuol correre il rischio di lasciarsi contaminare sapendo che altrimenti, altri virus sono pronti, a loro volta a contaminare i processi virtuosi.

Curitiba: a ciascuno il suo bosco (e una casa per tutti)

Curitiba è nota in ambienti che si occupano di urbanistica e di governo della città, per la sua amministrazione lungimirante di un sindaco architetti che negli anni passati ha garantito buoni servizi nei trasporti, nella governance. Meno famose sono le sue origini derivate dal sangue polacco, ucraino, tedesco e italiano che si sono impiantati in uno dei quadranti della città e, per ciascuno di essi si dedicava un bosco, in un contesto generoso di acque e piogge che regalano una vegetazione rigogliosa. Difatti l’ambiente naturale è sentito, con l’abbondanza di parchi come patrimonio collettivo della città, a partire dal meraviglioso giardino Botanico. Curitiba continua ad essere meta di migranti che fuggono come scarto di quel progetto moderno che nel Nuovo Mondo ha generato sogni rivoluzionari, nati e bruciati nel giro di qualche decennio tra Haiti, Cuba, Venezuela. Hanno bisogno oltre che di un bel parco o foresta: cercano un tetto, una casa, famiglia e una signora a Curitiba, ha aperto loro le porte. Singolare che Rejania, questo il suo nome, abbia problemi di salute con vista e udito e per di più sola. Probabilmente ha pensato che, per la sua salute integrale fosse più importante accogliere gente che non conosceva tra le sue mura. Poco a poco ha coinvolto i suoi amici e la sua comunità di riferimento e più che un bosco 800 rifugiati hanno trovato una comunità, una casa che funziona come una sorta di store collettivo, dove abiti, mobili e alimenti circolano in una rete di appoggio che conta ormai centinaia di persone. Il Covid ha generato, anziché fermare, un sottobosco salute sociale che vale raccontare, in un Paese che è stato tra i più colpiti oltre che per la pandemia, per i suoi effetti postumi.

New York: non solo sky-line

Più vogliamo allontanarcene e più siamo attratti dalla metropoli per eccellenza, icona del mito urbano del secolo XX; ma in questo secolo XXI più che dalle sue luci e grattacieli, chissà dovremmo lasciarci ammaliare da un’altra sua dimensione, quella di laboratorio. La grande Mela continua tra enormi contraddizioni, ed essere luogo di sperimentazione e oltre le nuove e spettacolari torri che ne deformano il noto skyline, conviene tenere d’occhio quello che avviene in basso, nello space-line; sulla ormai famosa Highline, e non solo.È per le strade e nel sottosuolo, nella subway, che si misura un disagio crescente. Nell’odore persistente che denuncia l’uso continuo di stupefacenti; nel via vai senza meta di di corpi che sembrano, un pò come a Los Angeles, “svuotati”. New York tra disastri ambientali e sanitari, impaurita per l’aumento di criminalità, e la chiusura di attività commerciali e di rappresentanza nei suoi giganteschi edifici, è cambiata ancora una volta.E mai stanca, si adegua, cambia e mentre cresce di nuovo il suo profilo verticale, cambia anche quello orizzontale, iniziando dai bordi di Manhattan con l’inserimento di nuovi dispositivi (terrapieni, barriere) utilizzabili come spazio pubblico nella quotidianità e come muraglia contro l’innalzamento delle acque all’occorrenza: il passaggio dell’uragano Sandy ha reso palpabile il rischio di vedersi simile ai tanti film che l’hanno voluta sfracellata sotto qualche tempesta o meteorite.Del resto, anche il suolo di New York ha un pattern di riconoscimento non da poco, che è anche il suo cuore: Central Park è quel pezzo di patrimonio naturale che ricorda le radici profondamente radicate nello spazio naturale di questa nazione che, non ha caso, ha “inventato” i Parchi nazionali, cosciente del ruolo che la Natura aveva nel Nuovo Mondo.Ma non basta più ri-cordare, riportare al cuore fisico della città, uno spazio naturale. New York non è solo l’isola di Manhattan e la natura non è solo quella romantica e generosa di Central Park. Qualcuno si è posto una domanda: cosa succederebbe se togliessimo Central Park? La riposta è stata contraria: bisogna moltiplicare con logiche diverse, il cuore “verde” dei nostri habitat, con una grammatica e un disegno molto diverso da quello “naturalistico” del famoso parco centrale. Marco Giometto, ingegnere alla Columbia University in “fluidodinamica ambientale” studia fenomeni di biodinamica tra natura e spazio urbano attraverso l’analisi dei flussi e modelli presi da più fonti e discipline e tra energia termica, umidità e inquinamento presenti nell’atmosfera, studia il comportamento e la trasformazione dei materiali sulla superficie terrestre. Un progetto ambizioso che ha come orizzonte il modo di costruire delle Big Cities, delle immense megalopoli che ospitano ormai il 70% della popolazione mondiale, all’impatto potente del cambio climatico. New York, laboratorio, non nel suo cuore ma nelle periferie, dove le sfide dietano innovazione, ospiterà una foresta dove poter sperimentare, dal vivo, tale studio, nel bel mezzo del Bronx. Bella iniziativa, che suscita ovviamente altre domande: con quali alberi? Chi li pianterà e se ne prenderà cura? Non ho risposte per questa foresta del Bronx, ma so di una storia parallela. La città ha deciso di piantare oltre un milione di alberi per contrastare il cambio climatico: le continue bombe d’acqua nel Bronx come da Harlem, fanno riemergere dal suo di asfalto e cementi le acque che, in tali zone, non sono mai state divise in “bianche” e “nere”: Piantare alberi vuol dire far respirare il terreno, favorendo ne la capacità di assorbimento. Fare in mondo che il suolo diventi “spugnoso”. Gli alberi destinati a tale scopo saranno piantati anche grazie all’aiuto di enti ed associazioni in zone predestinate, secondo le diverse specie. Ad Harlem un cittadino degli USA, di origini filippine dal nulla ha creato un’impresa fornitrice di servizi informatici tra le più importanti della città: tra i suoi clienti, la rete metropolitana. Con lui lavorano un tedesco e uno yankee originario di Boston, che sembra appena uscito da un western. La domenica suona il sax con un bel gruppo gospel nella parrocchia più povera del famoso quartiere nero. Il filippino, lo yankee e il tedesco, assieme ad un altro amico svizzero ormai in pensione si danno un gran daffare al servizio che la parrocchia offre a homeless e immigrati, che popolano le strade di Harlem, dalle parti del teatro Apollo, della moschea di MalcomX, degli uffici usati da Obama, prima che si trasferisse alla Casa Bianca. Ma, un pò come a Los Angeles (e da tante altre parti), non basta più distribuire pasti e panni per sanare ferite profonde, mali oscuri che si insinuano tra i tessuti della città. E così, grazie anche ai contatti ai vari livelli, questo gruppo di amici ha iniziato ad attivare una rete più ampia rete coinvolgendo cuore per cuore, potremmo dire, persona per persona, figure tra le più varie: professionisti in grado di aiutare per altri servizi necessari (insegnamento della lingua, assistenza legale); gente che lavora nella Downtown, gente di circoli culturali che, a guardarli, sembrano usciti da un film di Woody Allen. Bastava? Ancora no. Il corpo, per stare bene, necessita di circolazione attiva capace di andare e tornare, a beneficio dell’intero corpo. Ecco allora, il ruolo degli alberi: Perché non creare un circuito che restituendo gratitudine, possa dare respiro alla città? Chi ha beneficiato di certi servizi di aiuto ed assistenza, piantandoli, contribuisce a sua volta al benessere pubblico della città.

Lo scarto di Haiti

C’è chi sostiene che questa epoca dovrebbe avere come cifra narrativa lo scarto, entrati in un momento in cui le azioni dell’umanità possono rappresentare il punto di svolta nell’era geologica della Terra e allora, oltre il Capitalocene, l’Antropocene, ecco apparire anche il Wasteocene: “inquadrando i rifiuti nell’azione che li produce, come un insieme di relazioni socio-economiche che creano persone e luoghi di scarto” (Armiero, 2021).È cambiato il modo di stare insieme su questo pianeta ma non sono cambiate granché le forme del nostro stare insieme: stesse case, strade, auto, parcheggi. Solo adesso, nel dramma di sfide mai affrontate prima come una pandemia globalizzata e una guerra che sembra ributtarci al secolo passato, apre nuove stimoli e domande per il secolo XXI del come fare forme, architettura, città. Come spesso accade, le possibilità di scelta sono due: continuare come sempre, credendo che la città sia fatta degli stessi pezzi e materiali che abbiamo davanti tutti i giorni tra palazzi, strade, cemento, e colonne (e qualche nuovo dispositivo greenfriendly e tecnologicamente avanzato); oppure cogliere i meccanismi e le sfumature del vivere insieme oggi, prevedendo che l’intero ciclo dell’habitat sia a circuito chiuso, capace di integrare quello che, nel secolo passato, il moderno non riusciva gestore: lo scarto, gli scarti: plastiche, misto, edifici, persone. E a volte, per capire la quantità di cose che non riusciamo e decifrare come scarto, bisogna andare dove questo riesce a sopraffare il resto, difendendo non l’eccezione ma la normalità. A me è capitato quando ho potuto compiere un viaggio ad Haiti, nel settore di Warf Jeremi della capitale Port Au Prince. La bellezza tropicale della spiaggia caraibica è stata cancellata e sopraffatta da un nuovo strato geologico di alcuni metri di spessore, fatto da rifiuti che come massa informe avanza costantemente, guadagnando spazio al mare. Altri rifiuti, umani sopra-vivono su questo strato e tra pezzi di metallo e plastiche riescono a guadagnare la sussistenza. Ma un pò tutti a Port Au Prince sembrano vivere della “ricchezza” dei rifiuti, abbondanti in una città di oltre un milione di abitanti che non riesce neanche a gestirne la raccolta. Sui resti dei materiali di costruzione, su ferri, sulle plastiche si ricostruisce, si reinventa, si sopravvive. Non ci sono solo i rifiuti prodotti localmente. Haiti sembra il posto adatto dove buttare tutto quanto viene prodotto anche di buono, da altre parti. Anche le case costruite con le offerte di chi aveva da “donare”, tra tegole, tavoli e water, viene smontato e rivenduto. Come si può pensare di sopravvivere in un ambiente come questo del resto, senza una fonte di reddito? Il bene fornito dalle abitazioni sarebbe stato di per sé, un patrimonio facile da smerciare. In questo Paese, tra i più poveri al mondo arrivano anche gli scarti di quanto, nel resto del mondo, eccede: l’opulenza del Nord e le regioni del Sud, dei computer e cellulari di seconda mano, dei container di medicinali e cibo delle organizzazioni internazionali che pur devono smaltire i loro depositi e magazzini. “Arrivano persino i soldi di chi, pur senza richiesta esplicita, dona alle Ong anche se non abbiamo fatto richiesta esplicita per progetti” mi sottolinea un amico operatore. Arrivano naturalmente anche tanti che, come i missionari della comunità di Belem che mi ha ospitato, scartano dalle loro vite altri possibili percorsi, donando il meglio delle loro energie e talenti. Il progetto che mi ha sorpreso di più non era ancora realizzato del tutto: c’erano già i cordoli delle fondazioni e pilastri in cemento armato iperstatici per sorreggere la copertura in lamiera per casette di appena tre stanzette ad un solo piano. Mi è stato spiegato che il progettista ha sovradimensionato ferri e cemento per timore di terremoti e, possiamo pensare non allontanandoci troppo dalla verità, da ricorsi e trappole giudiziarie. Materiali in abbondanza, costi elevati, grazie alle donazioni ignare dell’inutilità di quella sparuta manciata di abitazioni realizzate secondo progetti, materiali e tecniche di costruzione peraltro standardizzate. Ugualmente sorprendente, la quantità di edifici in cemento schiacciati e sconquassati dal terremoto; segno evidente di una incapacità progettuale, di una qualità scarsa della stessa costruzione. Incuriosiva invece la “resistenza” alle tremende scosse degli edifici dall’inconfondibile stile architettonico tropicale, in legno. Peccato però che, se c’è qualcosa che davvero manca ad Haiti, è il legno, gli alberi. Una certezza si è via via sedimentata nei miei pensieri dopo anni vissuti tra gli scarti e la provvisorietà delle terre americane cosi dense di retoriche ben solide, tra le infrastrutture e le architetture in vetro e cemento tirate su nel fervore del Movimento Moderno: è ora di esplorare limiti che vanno oltre le certezze professionali acquisite, navigare nei territori del provvisorio, del flessibile, del riciclo e, in questo navigare, attraversare altre discipline, culture e geografie, ricche di creatività, costumi e tecniche convivenza; di “risorse e e razionalità occulte” (Donzelli, Petrusewicz Rusconi, 1994) come amava definirle il grande economista Albert Hirschmann, ebreo nato in Germania, rifugiato negli Usa e grande conoscitore successivamente, delle terre latinoamericane. Ad Haiti le colonne di gesso in simil-classico si vendono per strada affianco ai vestiti, ai lettini, alle scodelle. Sono solide quanto basta per buttarle giù alla prima scossa di terremoto; sono utili per chi le vende e anche per chi le compra: rappresentano quella bellezza necessaria per ostentare il raggiunto e agognato benessere. Ma forse non rappresentano più la triade vitruviana (firmitatis, utilitatis, venustatis) che era alla base dell’architettura e, fino all’avvento dell’era moderna, delle città a misura d’uomo. Quel gruppo di missionari che ho potuto visitare non ha iniziato costruendo abitazioni. Hanno creato un piccolo centro nel quale educare bambini all’ombra degli alberi che loro stessi hanno iniziato piantare. E ancora non riesco a capire come, dal suolo simil-geologico dei rifiuti, siano riusciti a tirar su addirittura una clinica. Dallo scarto un benessere, altro. Haiti condivide con la repubblica di Santo Domingo l’isola che per prima ha visto quelle tre caravelle partite dalla Spagna nel 1489. Non dal mare, ma dall’aereo sorprende captare la divisione tra i due paesi: dal verde che a Santo Domingo, c’è come anche un PIL 10 volte superiore rispetto alla povera Haiti. Non di rado poi, i due Paesi si son fatti guerra. Subito dopo il terremoto del 2009 è stato però Santo Domingo ad arrivare per primo nella gara dei primissimi soccorsi, aprendo frontiere, ospitando profughi, accogliendo nei suoi ospedali i feriti, fornendo elettricità per far ripartire i servizi essenziali. Non ha dato lo scarto ma del proprio, condividendo mezzi e risorse di quella stessa barca-isola nella quale convivono. Oggi, se davvero c’è una chance per Haiti passa anche dalla prossimità con Santo Domingo; dall’apertura delle frontiere e dall’accoglienza per oltrepassare i limiti stereotipati della donazione filantropica. Un amico dominicano rilevando la quantità di giovani medici del suo paese, mi dice che il suo sogno sarebbe quello di aprire un centro sanitario sulla frontiera con Haiti, per poter accogliere gente dei due paesi. Io tornerei volentieri ad Haiti e pianterei alberi, come primo atto d’architettura.

Bibliografia di riferimento:ARMIERO, Marco: L’era degli scarti, 2021DONZELLI, PETRUSEWICH, RUSCONI (a cura di): A. Hirshmann. Passaggi di frontiera, 1994GRANATA, Elena: Playcemaker, 2021JARAMILLO, Jorge Perez: Medellín. Urbanismo y sociedad. Turner Noema, 2023ZUCCONI, Guido: La città contesa. Dagli ingegneri sanitari agli urbanisti, 1999Articoli:AVVENIRE, 6.1.2022: A New York Progettiamo il futuro green della Città.DOMANI, 20.02.2023: Cosa sappiamo sull’omicidio del vescovo David O’Connell.

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