La cattedra dell’emergenza
di Mario Tancredi
Siamo in emergenza sanitaria e una delle conseguenze per l’attività didattica è l’uso di infrastrutture virtuali: videoconferenze per lezioni, esami, tesi di laurea.La mente e le icone del pc mi riportano alle esperienze di “aula virtuale” che ho potuto svolgere dal 2009 fino all’anno scorso con le Università de La Salle di Bogotà e CUC di Barranquilla. Sì, nel mondo globalizzato che fino a poco fa sembrava l’habitat naturale in cui ci si muoveva mi è stato possibile vivere in Italia e “fare lezione” dall’altra parte dell’Oceano. Anzi di più: ho potuto svolgere attività accademica mentre ero a Budapest, in Francia, in Germania, per le strade di Roma, a Milano, in ufficio, in salotto, addirittura un volta in auto e pure all’aperto: bastava una buona rete wireless e voilà, la lezione iniziava: lo schermo si accendeva e mi ritrovavo un bel gruppetto di studenti che scrutava curiosa il “palcosecnico” dal quale parlavo mentre io, a mia volta, cercavo di catturare e verificare se lo sguardo degli studenti fosse attento alle mie spiegazioni, chiedendo di tanto in tanto di girare la loro videocamera per verificare che fossero tutti ancora davvero presenti, in tutti i sensi: con la testa e corpo intero. Per dirla tutta, in quelle lezioni online non era neanche necessario un pc, anzi: indimenticabile una sera in cui la lezione l’ho potuta fare on the road: cellulare alla mano, tra le strade e i monumenti di Roma; e in quell’occasione si, gli studenti erano veramente catturati. Il cellulare aveva migliore risoluzione, e l’attenzione e il risultato della performance digitale pure.Il corso si intitolava “Catedra de Emergencia” ed era sperimentale anche nei contenuti: si intendeva esplorare quell’architettura emergente in grado di dare risposte ai tempi difficili di crisi economica, migrazioni, terremoti e catastrofi ambientali varie.
Ma… era davvero lo stesso interagire attraverso uno schermo, piuttosto che essere fisicamente tutti insieme in un’aula reale?
No. Assolutamente, no: ogni cosa o nuova soluzione può avere un suo valore, esplorando in questo caso l’originalità del dispositivo virtuale. Me ne sono accorto una sera, tarda sera (eh già, le lezioni erano sempre a notte fonda in Italia per il fuso orario…) quando la connessione wireless proprio non andava ed era impossibile attivare la videocamera; una situazione da tempesta perfetta: l’emergenza logistica per la connessione instabile per la Catedra de Emergencia nata per esplorare elementi di architettura emergente. L’impossibilità della videocamera ha acceso la chat: e il mio schermo si è popolato di messaggi tra i più vari e fatti di opinioni, pensieri e materiali rilanciati da studenti effettivamente collegati, non solo alla rete ma all’argomento in discussione. Lo schermo si è spento all’immagine asettica di figure e faccine sfocate è si è animata di parole scritte, sorprendentemente intense e profonde.Una nuova modalità e una nuova metodologia si è aggiunta alle classiche lezioni virtuali fatta di dialogo two ways, di input e feedback, di stimoli personalizzati alla ricerca degli studenti e della creazione di piccole biblioteche di riferimenti e soluzioni condivise in modo digitale.L’emergenza aveva fatto emergere qualcosa di nuovo, facendomi intuire che il mezzo digitale non era semplicemente un -ahimè- triste rimedio suppletivo all’assenza fisica; che aveva potenzialità tutte da esplorare e che avrebbe potuto addirittura “tirare fuori” nella modalità chat (poco più di Wapp) una qualità di rapporto che magari non avrei potuto aspirare dall’asettica videoconferenza.Successivamente, l’università ha iniziato a predisporre un vero e proprio sistema di aula virtuale fatta di più dispositivi e strumenti per collocare in modo ordinato materiali (audio, video, presentazioni, testi) la stessa chat e il relativo dialogo abilitando le richieste di intervento di ogni studente anche in video, oltre ad altri supporti come un vero e proprio sistema di archiviazione anche dei materiali degli studenti per la valutazione.Può bastare il mezzo virtuale? Un coro di voci, tra docenti e studenti, dice di no e si continua a ripetere che comunque la scuola è sinonimo di condivisione reale.
Torniamo all’attualità stringente e grave. Tante università e scuole si stanno attivando per la didattica digitale a distanza che sembra essere il “coniglio magico” (Lelio Voce sul Fatto quotidiano) tirato fuori nell’emergenza; soluzione utile sempre e quando tutti abbiano una buona connessione e relativa capacità digitale. Tutto qui? Cosa sta cambiando realmente in queste drammatiche e incerte ore? Mentre navighiamo a vista, tra provvedimenti e prove tecniche di trasmissione, cosa ci sta cambiando?Non si tratta solo di digitale o meno; forse questa emergenza sanitaria mette a nudo una domanda che sembra percorrere questi agitatissimi mesi a cavallo tra l’anno appena trascorso fatto di piazze piene in Italia di Sardine, nel mondo di ragazzi “For Future” e in tanti angoli del mondo di proteste sociali, e quello appena iniziato in modo cosi sorprendente di piazze e strade (relativamente) deserte: come potremo vivere insieme?Siamo stati troppo abituati al “dove” ci troviamo, che non sappiamo più porci la domanda del “come” possiamo incontrarci; domanda che va ben al di là dell’apparato digitale che in questo momento sembra essere solo un altro luogo ancora piuttosto che un occasione per tirar fuori, dall’emergenza, quanto sta emergendo per davvero. “How will we together?” Come potremo vivere insieme, è il titolo della prossima Biennale di Architettura di Venezia, rimandata precauzionalmente a fine estate.Forse quello che non conviene rimandare è proprio questa domanda e cominciare, oltre che a pensarci, a scoprire davvero come viverla.
Episodio 7